domenica 28 novembre 2010

"La melodia del corvo" di Pino Roveredo


Un immondo Grand Guignol di nefandezze, un circo animato da “equilibristi della provvidenza” e “giocolieri della disgrazia” è il microcosmo in cui riecheggia, roca e sgradevole, “la melodia del corvo”; un sottoscala della vita abitato da personaggi grotteschi che hanno derubricato l’amore dalla loro antologia della sopravvivenza, scritta con l’inchiostro della bile nera e con la mano scossa dai fremiti delle crisi d’astinenza.
Nelle zone d’ombra della loro “Corte dei Miracoli” si aggira un substrato di umanità con la coscienza narcotizzata da una permanente anestesia affettiva: prestigiatori abili nel trasformare il denaro in fumo e il fumo in delirio; temerari saltimbanchi che valicano la montagna della vita con “capriole in salita”; picchiatori scelti pronti ad avventarsi con inaudita violenza sugli insolventi compratori di illusioni in bustine; funamboli maldestri nel loro deambulare in perenne equilibrio instabile, sulle corde tese ai confini di una umanità possibile, senza la sicurezza della rete di protezione ad attutire le inevitabili cadute. Una rete predisposta ad accogliere, come in un amorevole abbraccio, chi è lontano dagli schemi della perfezione che il mondo al di fuori della tenda esige.
Situazioni estreme, personaggi esasperati, il tempo della vita scandito da un ritmo concitato che Pino Roveredo traspone sulle pagine del suo ultimo romanzo con una scrittura affannosa, sincopata, con le approssimazioni della lingua parlata, col ricorso ad incisivi ossimori, allitterazioni, onomatopee; con una narrazione che, discostandosi dalla linearità temporale ricorre a continui flashback a giustificare lo stato confusionale in cui si trova il protagonista, sprofondato nel buco nero dell’Io, nel vuoto interiore evidenziato dalla insicurezza e dai bisogni. Il bisogno d’amore, in particolare, crea in Gino una dipendenza affettiva dalla persona sbagliata: Giuliana, la dispensatrice di dolore, la vigliacca ipocrita opportunista capace di mille travestimenti, la passione dei vent’anni dall’incedere sicuro con la sua “prorompente bellezza caricata sui tacchi”, la predatrice entrata nella sua vita e nella sua anima per derubarlo della propria libertà interiore, della dignità, dell’autostima; per distruggergli la famiglia, il lavoro e tutto quanto faticosamente costruito fino a quel tragico 18 ottobre.
Devastata dall’incapacità di elaborare i lutti provocati dalle esperienze negative vissute col padre e con il suo primo amore, Giuliana “ingrassa la sua rivincita” usando gli uomini per vendicarsi, andando all’incasso dei crediti che la vita le porta calpestando chiunque si trovi sulla sua strada, inseguendo un benessere borghese travestita da “sinistroide sinistrata”, cantando Bandiera Rossa e Contessa con la sua voce roca da corvo, spacciando stupefacenti.
Una di queste sostanze ucciderà Riccardo , che da quel momento va ad abitare la mente di Gino diventandone l’alter ego, la coscienza, la sua parte razionale, l’istinto di conservazione, colui che gli impedirà di traslocare “dalla preoccupazione della vita alla soluzione della morte”.
E’ un ipersensibile Gino; ama Paperino, la rima dolce di Prévert,i piaceri semplici della vita; reclama coccole dalle donne della sua vita, la moglie e la figlia, che gli riservano il gelo dell’indifferenza. Arrabbiate con la vita, prive di qualsiasi entusiasmo Luisa e Martina sembrano geneticamente predisposte alla tristezza, alla malinconia e alla depressione. Gino al mattino prepara loro la colazione mettendo anche i fiori a tavola, sia pure di plastica, e le sveglia con un bacio, ma “non è facile amare senza avere poi indietro il conforto di un ritorno”.
La loro vita “quadrata, con gli animi a spigolo” scorre con la noia di un treno accelerato sui binari della normalità, con gesti che si reiterano quotidianamente senza suscitare la benché minima emozione, con la comunicazione affidata a sguardi imbronciati e invettive urlate. Una situazione stagnante in cui Giuliana trova un fertile humus per radicare e poter neutralizzare la volontà di Gino, che si ritrova proiettato in una dimensione costituita da molte ipotesi ( ipotesi di una fuga…di un amore…di un tempo…di un luogo…di un incastro…) e una sola certezza : la voglia di regalarsi il grande piacere di restare. Malato di possessione amorosa, terrorizzato dalla paura del distacco Gino troverà la forza di compiere un gesto che legherà per sempre a lui la sua Giuliana.
Scritto in tre mesi, in contemporanea con altri due libri che usciranno nel 2011, Roveredo non ha concesso distrazioni alla velocità, rimanendo nelle cifre stilistiche della sua scrittura asciutta e immediata ma anche avvolgente e appassionante, ricca di spunti autobiografici nei contenuti.
Dalle pagine del romanzo prende corpo la tormentata vicenda esistenziale dei suoi primi 40 anni; un percorso consumato nelle costrizioni del letto di contenzione e dell’Hotel Millesbarre ma illuminato dalla scoperta di una dimensione totale della libertà che può derivare solo dalla cultura.
I testi divorati nei lunghi periodi di isolamento hanno medicato le offese subite nel corpo e nello spirito, contribuendo a restituire alla società un uomo consapevole, che ha imparato a rispettare sé stesso e gli “ultimi”, quella parte di umanità che non tace le difficoltà del vivere quotidiano e i rischi di rimanere vittime di autoinganni senza possibilità di riscatto. Lui che a riscattarsi ci è riuscito ora si occupa di chi è ancora dentro il vortice dell’autodistruzione, e li aiuta a venir fuori seguendo gli insegnamenti di Basaglia. E’ uno scontro titanico tra Eros e Thanatos, una scommessa tra la vita e la morte perché se è vero, come fa dire a Gino, che ci vuole coraggio per morire è maggiormente vero che ci vuole eroismo per vivere.
Daniela Gerundo

sabato 13 novembre 2010

Il peso della farfalla di Erri De Luca


Un Cantico delle Creature in prosa; un inno alla vita in tutte le sue espressioni; un omaggio alla sorprendente bellezza della natura ed alla intelligente laboriosità degli animali: l’aquila, il ragno, l’orso, il camoscio, lo stambecco, protagonisti con pari dignità di un racconto breve ma intenso permeato da una visione rispettosa e positiva della natura.
E’ l’analisi comparata di due esistenze e di due solitudini diverse quella che ci racconta Erri De Luca nel suo ultimo romanzo: un cacciatore ed un camoscio che si cercano, si spiano, si rincorrono, si temono; che assieme percepiscono il sopraggiungere del momento che metterà fine alla loro vita, solitaria per scelta, consumatasi nel silenzio dei boschi.
“ Quando un uomo si ferma a guardare le nuvole vede scorrere il tempo oltre di lui”. Il terzo capoverso a pag. 41 potrebbe essere il giusto incipit per introdurci nella storia di due esseri stanchi che, sentendo approssimarsi l’ineluttabile momento della chiusura del ciclo vitale, scelgono di mantenere intatta fino all’ultimo la loro fierezza e la loro dignità.
Nella narrazione si evidenzia da subito il rispetto e l’ammirazione che lo scrittore nutre per il camoscio, reso orfano ancora cucciolo dal cacciatore e divenuto “ il re dei camosci” forte di una taglia in più rispetto agli altri; costretto da solo a sperimentare le dure leggi della sopravvivenza; cresciuto senza regole ma capace di imporle al branco; capace di proteggere i cuccioli dagli attacchi delle aquile; capace di fiutare la presenza dell’uomo a grande distanza; determinato a non cedere la supremazia ad un maschio minore solo perché più giovane.
“Re dei camosci” era chiamato a valle anche il cacciatore, esperto alpinista capace di scalare pareti impossibili e tuttavia consapevole di essere un “re minore” come quello che “soffiava nella sua armonica”. Aveva ucciso 306 camosci con le sue pallottole da 11 grammi ma era stato il suo percorso di vita a fare di lui un bracconiere. Era stato giovane durante gli anni di piombo quando l’estremizzazione della dialettica politica si tradusse in lotta armata, in accanita ostinazione a voler “rovesciare il piatto”. Ma “un uomo è quello che ha commesso”; se dimentica è come un bicchiere alla rovescia, un vuoto chiuso ed “il peggio è sempre possibile”. Da qui la scelta di vivere in una stanza a 1900 metri di altezza, immerso nella natura, pronto a recepire le lezioni di vita e di lealtà che gli animali sanno riservare al genere umano.
Il sopraggiungere dell’età adulta per entrambi porta con sé delle crepe nei sensi , negli organi, negli arti. Per il cacciatore è una crepa anche l’appuntamento accordato ad una donna, una giornalista disposta a salire fino a 1900 metri pur di intervistare “l’ultimo bracconiere”. E’ una crepa l’incapacità di percepire il presente, di governare l’istinto che spinge a uccidere senza necessità, di comprendere quando le stagioni della caccia e della vita volgono al termine.
“Ci sono carezze che aggiunte sopra un carico lo fanno vacillare” così come il peso di una farfalla che si posa sul cuore è “ la piuma aggiunta al carico degli anni, quella che lo sfascia”. E lo sfascio, la fine per entrambi, si preannuncia attraverso l’ ultimo episodio di caccia con il quale si chiude il racconto: l’ animale compie un atto di clemenza nei confronti del suo nemico – compagno di solitudine; il cacciatore, come già avvenuto in passato, compie un atto grave, pur nella consapevolezza di non potervi porre rimedio “ non poteva risarcire il torto , ma poteva rinunciare. I debiti si pagano alla fine una volta per tutte”.
Un finale che non sorprende chi leggendo ha recepito un vago sentore di morale didascalica sovrastare le righe, senza tuttavia cadere nella facile retorica o gratuita precettistica. Nelle intenzioni dell’autore vediamo solo la volontà di offrire spunti di riflessione; la ricerca di stimoli per migliorarci; l’ occasione per guardarci dentro e confrontarci con le nostre sensazioni disancorate da melensi sentimentalismi.
Si ritrova molto della biografia dell’autore nella storia del cacciatore: l’età, l’amore per la montagna, la passione politica, la morigeratezza nello stile di vita, l’importanza dei valori, dei vincoli parentali, dei codici non scritti che ispirano il comportamento degli animali e che l’uomo tende a dimenticare. Ritroviamo tra le righe l’innata spiritualità del non credente che comunque sente di voler ringraziare il “capomastro” rivolgendogli un pensiero al calar della sera; la passione per le sacre scritture nel riferimento al “vestito di vento di Elohìm”; le digressioni colte inserite con modestia e umiltà, con quella umiltà che traspare dai suoi occhi luminosi e malinconici, che tanto hanno visto e molto hanno ancora da raccontare.
Daniela Gerundo

La Solitudine dei Numeri Primi - Film


Sicuramente meno apprezzato del libro da cui è tratto, il film si rivela asfittico già dalle prime scene a causa della cappa plumbea che sovrasta i personaggi, tutti immersi in una realtà intrisa di frustrazioni, dolori laceranti, ossessioni, ferite mai cicatrizzate.
La trasposizione filmica si incentra principalmente sui percorsi sofferti dei due protagonisti, relegando a ruoli di secondo piano gli altri personaggi che pure hanno contribuito a segnare in modo determinante le esistenze di Alice e Matteo.
L’assenza di coralità sortisce un effetto “soporifero” negli spettatori, specialmente nel pubblico maschile, geneticamente poco predisposto a coinvolgimenti emotivi nelle storie di stampo intimistico-introspettivo .
Ma neanche alle donne il film riesce a rapire l’anima, perché non narra una storia d’amore, di passione, di sentimenti forti che animano situazioni nelle quali rispecchiarsi; racconta di drammi e sofferenze, dolore e autolesionismo, smarrimento e disperazione in un susseguirsi di negatività che non lascia spazio alla speranza nemmeno nel finale.
Cupo nelle espressioni e negli sguardi, nei silenzi e nei dialoghi frammentati, nei colori e nelle ombre necessarie per mettere in luce le lacerazioni dell’anima oltre che dei corpi, il film si affranca da una connotazione tediosa e monotona solo grazie ad una scelta narrativa che, discostandosi dalla linearità temporale ricorre a continui flashback e flashforward funzionali a tener viva l’attenzione dello spettatore, e comunque non è un film destinato a rimanere nella memoria collettiva.
Daniela Gerundo

Il tempo invecchia in fretta di Antonio Tabucchi


Ben ponderata la scelta di una fotografia di Philippe Ramette in copertina : un uomo sui trampoli in cima ad una montagna, alla ricerca di “un punto di vista imprevisto” sul mondo, nell’intenzione del fotografo.
Un uomo con lo sguardo teso ad oltrepassare le linee di demarcazione dello spazio, i profili delle montagne cobalto, la linea blu di un orizzonte rischiarato da candide nubi sospese nel cielo azzurro, pronto a proiettarsi nella dimensione del ricordo, nell’interpretazione del lettore attento.
Si recepisce una sinestesia rassicurante che predispone alla concentrazione nella lettura di un romanzo che esige un’attenzione continuativa.
“Ogni immagine è una piccola avventura” per il Magritte della foto, sempre impegnato a sfidare la visione razionale del mondo.
Ognuno dei nove racconti che compongono il libro di Tabucchi è una storia finita che contiene in sé tutti gli elementi per costruirci su un intero romanzo.
Sono storie raccontate con un pathos così intenso e ammaliante da agire sulla sfera delle emozioni fino a distogliere l’attenzione dalla trama. Storie di personaggi emblematici tanto diversi tra loro ma accomunati dalla convergenza coscienziale dell’inarrestabilità e inafferrabilità del tempo e della profondità dei solchi che il suo scorrere lascia sulla vita delle persone.
Racconti che si snodano attraverso lo scandire del tempo, non solo del tempo personale, famigliare, della storia passata e recente ma anche del tempo dello spirito, appesantito da un carico di rimpianti e malinconie che inducono i protagonisti ad andare avanti col capo rivolto indietro, guardando al passato con l’occhio deformante della nostalgia mitizzatrice.
Storie di esistenze legate dal fil rouge della “saudade”, quella “inesplicabile sensazione di rimpianto, di malinconia e, al tempo stesso, desiderio di raggiungere l’inaccessibile”.
Storie realmente esistite, ascoltate, raccontate e disposte nel libro senza rispettare la cronologia di scrittura, precisa l’autore nella postfazione. Ma l’impatto con il primo racconto è forte: un lavoro perfetto nella forma e sorprendente nel contenuto che racchiude in se tutti gli elementi che ritroveremo nelle storie successive.
Intenso, suggestivo, quasi metafisico “Il cerchio”, racconto d’apertura che da solo giustifica l’intero romanzo. E’ il cerchio tracciato sul terreno da una mandria di cavalli che gira vorticosamente attorno alla protagonista del racconto al pari dei ricordi che affollano la sua mente. La donna, confusa dagli inganni della memoria tra ricordi e “falsi ricordi” che si susseguono senza una linearità temporale, sembra prigioniera più della dimensione claustrofobica della sua esistenza che della situazione contingente. Il cerchio evoca in lei il “sentimento di se stessa”; il cerchio, la forma più perfetta, simbolo di Dio e del cielo, figura che esprime la circolarità del tempo, di quel tempo che sembra volato via come aria, lasciando sepolte “nella sabbia della memoria” le risposte ai tanti interrogativi esistenziali che hanno scandito la sua vita.
Clof…clop…cloffete…cloppete…il tempo scandito da onomatopee differenti, ad indicare la variazione di intensità delle gocce che, cadendo, emettono un suono che segue una loro scala musicale. Gocce che scendono da una flebo che alimenta una persona amata e che implodono nel cervello del protagonista del secondo racconto facendo affiorare “ da un’eternità di tempo” personaggi e vicende confuse, avvolte da uno strato di nebbia che si dirada davanti al sorriso di una bimba malata terminale.
Registro stilistico più snello che favorisce una lettura più spedita in “Nuvole”. Una conversazione che tocca argomenti di notevole spessore culturale tra una bambina, resa adulta anzi tempo dai “dissidi esistenziali” dei genitori separati, e un militare in convalescenza dai danni provocati dall’esposizione all’uranio impoverito. Alla bimba, in cura dallo psicologo per le conseguenze di traumi che lei chiama “crisi dell’età evolutiva”, l’uomo insegna la nefelomanzia, l’arte di indovinare il futuro osservando le nuvole.
Un bilancio fallimentare della propria esistenza è quello che deve tracciare il protagonista del quarto racconto, un uomo benestante che vive una situazione di agiatezza e apparente sicurezza ma soffre di sbalzi di pressione imputabili, a detta del suo medico, a stati ansiosi immotivati. E’ un ex agente della ex Repubblica Democratica Tedesca che ha vissuto il crollo del muro di Berlino e delle ideologie dallo stesso simbolicamente sostenute. Ma il muro è crollato e dai dossier custoditi negli archivi della polizia è emersa una verità inquietante che pesa sul suo cuore come un macigno. La consapevolezza che la condivisione di un dolore con un amico può contribuire ad alleggerire il carico spinge l’uomo a recarsi al cimitero, dove riposa “nell’eternità orizzontale” la persona che per anni ha pedinato, condividendo ogni istante della sua vita e che per questo adesso sente a lui più vicino di qualsiasi altro amico: Bertold Brecht.
“Fra generali” molte “congetture” e una certezza: se la guerra non li avesse divisi, due uomini di grande spessore sarebbero potuti diventare grandi amici uniti dalle stesse grandi passioni.
“Yo me enamoré del aire”, il potere evocativo di una canzone, la sensazione di straniamento provocata da quelle note in un uomo che continua a sentirla dentro di sé come un’eco che lo proietta “verso una lontananza che non sapeva dove”.
Un viaggio nella storia contemporanea negli ultimi racconti, occasioni di feroce critica ai regimi totalitari, al reato di pensare in modo diverso dallo Stato, ai processi farsa le cui sentenze sono già scritte prima della seduta, alle leggi razziali, alle illusioni create dalla “pappina dell’eterna giovinezza della falsa scienziata”, ai lager, ai campi di rieducazione, ai manicomi giudiziari, alla pretesa di “lustrare la memoria per farla funzionare come vogliono loro”.
Un viaggio in aereo “Controtempo” che allontana un uomo dalla destinazione reale per proiettarlo in una dimensione borderline tra sogno e realtà, evocando un déjà vu liberatorio “come quando finalmente capiamo qualcosa che sapevamo da sempre e non volevamo sapere”, a chiusura del viaggio tra passato remoto e passato prossimo nel quale siamo stati condotti da Tabucchi attraverso la sua scrittura.
Una scrittura a volte fluida ed accattivante a volte complessa ed articolata, mai banale nella preferenza della parola, singolare nella scelta di abolire la virgolettatura dei dialoghi a vantaggio di una lettura più fluida ma di una comprensione meno immediata, perfetta nella forma quasi al limite del compiacimento manieristico, ricca di contenuti, citazioni e personaggi che offrono numerosi gli spunti di approfondimento anche a rischio di far prevalere l’uomo di cultura sullo scrittore.
Didascalico, nell’accezione più positiva del termine, il messaggio che recepiamo sin dalla copertina: servono trampoli altissimi per guardare oltre l’orizzonte visibile, per valicare i limitati confini di una quotidianità resa asfittica da condizionamenti di varia natura e aprirsi ad uno sguardo di più ampio respiro, pregno di comprensione, indulgenza, umanità, con la consapevolezza che “ non c’è futuro senza memoria”
Daniela Gerundo
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