lunedì 22 settembre 2008


Un giorno perfetto
Regia di Ferzan Ozpetek


Il libro non l’ho letto e non posso leggerlo per il momento perché ne devo finire altri 5 o 6. Il fatto è che l’estate i neuroni vanno in vacanza lasciandomi a casa e il caldo del magico sud mi toglie il respiro, impedendo il normale processo di ossigenazione del sangue che comunque deve affluire al cervello.
Tutta la mia vita ne risulta condizionata, come l’aria sparata a palla in tutta la casa.
Però sono andata al cinema e ho visto il film. Mi è piaciuto, come la maggior parte dei film di Ozpetek, il regista turco che in questa occasione si è discostato dalle tematiche che caratterizzano le sue produzioni per affrontare una storia corale orchestrata sulle sonorità rimandate da figure che fanno parte della nostra quotidianità.
Al cinema gruppi di donne vedono un film recitato da altre donne e nel buio si sente bisbigliare "guarda la Ferrari...è proprio come quella schizzata di Giovanna..." "ma che dici...a me sembra Stefania..." "io c'ho una collega che è proprio come lei..." "e la Sandrelli...sembra una scema come mia suocera..."
I commenti sembrano mirati maggiormente a smorzare il clima di tensione e ritardare la conferma di un dramma, preannunciato sin dalle prime scene, che si concretizza nel successivo flash back attraverso una narrazione che non risparmia i dettagli di molte morti annunciate.
Non ci ho creduto da subito che l’amore fosse la causa di una tragedia di così vasta portata. Per lo meno non l’amore inteso cristianamente che, come ricordato nell’enciclica DIO E’AMORE di Benedetto XVI, non parla attraverso l’abbraccio soffocante di chi vuole asservire gli altri alle proprie esigenze, ma si manifesta nelle mani inchiodate, che rinunciano ad ogni presa dell’altro. Chi anela all’unione con l’amato vive il desiderio dell’altro mediante il dono di sé stessi, della propria vita.
Ma la mitologia greca ci insegna che Eros è figlio di Penìa ( la povertà) e di Pòros (l’espediente); la fame endemica che lo affligge lo induce alla violenza per potersi saziare, e a volte lo trasforma in Thanatos, in morte.
Il poliziotto Antonio, Valerio Mastrandrea, in servizio di scorta ad un onorevole è ossessionato dalla moglie Emma, Isabella Ferrari, una ex rocchettara sciroccata e disincantata.
Sono già sposati da una quindicina di anni ed è poco credibile che dopo tanto tempo Antonio sia talmente innamorato della moglie da imboccare il tunnel del non ritorno conducendo con se i figli per il rifiuto di Emma di ricomporre una situazione degenerata a causa della sua gelosia.
Non una passione amorosa, una devastante ossessione, ma una ossessiva possessione ispira l’agire di Antonio, il quale ha lasciato che la divisa gli comprimesse il corpo e l’anima, fino a renderla asfittica. E’ un uomo preposto all’ordine pubblico che cerca l’ordine anche quando torna a casa; che vuole trovare la luce accesa, anche se è una luce artificiale, che non riscalda; che ha bisogno delle certezze rappresentate dai tiepidi affetti di una famiglia di monadi, che non comunicano tra loro: Emma, donna irrisolta quanto la più famosa Bovary; una figlia adolescente alle prese con palpiti di cuore e battiti di ciglia cariche di rimmel; un bambino saggio, sornione, pacato che subisce le angherie dei compagni tacendone con i suoi familiari.
Lui, il poliziotto a rischio burnout, alternando fasi di aggressività e prostrazione, tenta di ricostruire il puzzle raffigurante la “finta normalità” necessaria ad un uomo che per mestiere di cose normali ne vede ben poche e ne vive ancora meno.
A generare il dramma è la consapevolezza di aver perduto tutto ciò che era funzionale ad un apparente benessere, alla possibilità di immergersi in una dimensione umana, sia pura tra le inevitabili conflittualità generate dalle rispettive frustrazioni. In casa il poliziotto diventa comandante e impartisce ordini su come vestirsi, truccarsi, pensare, vivere, e quando lei non ci sta più e va via con i figli lui si rifiuta di incontrare i bambini per più di un anno. Amore di padre? Rifiuto di chi, con la propria presenza testimonia il fallimento di un progetto matrimoniale, lo stravolgimento di una pianificazione dell’esistenza.
Incapace di amare se non se stesso, Antonio ci appare fragile e smarrito, l’apparentemente tranquillo signore della porta accanto pronto invece a colpire con imprevedibile ferocia tutto ciò che ostacola il raggiungimento della rassicurante stabilità di cui ha bisogno .
Dura e determinata si mostra invece Emma, che accetta qualsiasi lavoro pur di affrancarsi da un uomo che forse in fondo ama ancora. Lo si capisce dalle confidenze sulla sua intimità che affida all’insegnante della figlia, una Monica Guerritore che la ascolta con un interesse indecifrabile, quasi inquietante, forse perché originariamente nel libro della Mazzucco l’insegnante era un uomo.
Il ritmo incalzante degli eventi si placa spostando la cinepresa sulle vite degli altri protagonisti. La coralità è funzionale ad una storia troppo intensa che da sola avrebbe conferito al film una connotazione eccessivamente cupa.
L’atmosfera invece è smorzata dalla leggerezza della Sandrelli, la mamma che accoglie in casa figlia e nipoti; dallo stupore della Finocchiaro, dottoressa del 118 che incrocia casualmente i protagonisti in un crescendo di drammaticità; dai sentimenti del giovane figlio dell’onorevole per la giovanissima moglie del padre, sposata in seconde nozze dopo il suicidio della prima.
La ragazza paga con l’infelicità il “ complesso di Lot” che ha condizionato la scelta del compagno di vita; la ricerca, cioè, di visibilità e autorevolezza attraverso legami sentimentali ( o sessuali) con partner maschili di età più matura. La storia raccontata nella Genesi è metafora di una “eterna relazione” tra donne giovani e uomini adulti motivata dalla ricerca del potere e del denaro.
In questo festival del disagio la più coerente rimane Emma che grida la sua voglia di vivere in un giorno perfetto in cui perde il lavoro, subisce un’aggressione dal marito e viene brutalmente picchiata e violentata.
Il finale drammatico è il naturale epilogo di una storia che trova giustificazione nelle umane debolezze, nei limiti della ragione, nel disordine emozionale, nell’incapacità di accettare le sconfitte, nella fuga dalla realtà. Non occorreva fare riferimento ad un libro per realizzare un film che è la trasposizione scenografica della cronaca somministrataci quotidianamente attraverso i media. Inopportuno ogni giudizio di natura morale o etica sugli eventi, storie di vite che si intersecano ai crocevia delle sconfitte, delle delusioni, del dolore, del dramma. Accogliamo pienamente il giudizio che del film ha dato lo stesso Mastrandrea “ abbiamo raccontato la razza umana, la cosa più affascinante e terribile che esista”.
Daniela Gerundo

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