sabato 13 novembre 2010

Il tempo invecchia in fretta di Antonio Tabucchi


Ben ponderata la scelta di una fotografia di Philippe Ramette in copertina : un uomo sui trampoli in cima ad una montagna, alla ricerca di “un punto di vista imprevisto” sul mondo, nell’intenzione del fotografo.
Un uomo con lo sguardo teso ad oltrepassare le linee di demarcazione dello spazio, i profili delle montagne cobalto, la linea blu di un orizzonte rischiarato da candide nubi sospese nel cielo azzurro, pronto a proiettarsi nella dimensione del ricordo, nell’interpretazione del lettore attento.
Si recepisce una sinestesia rassicurante che predispone alla concentrazione nella lettura di un romanzo che esige un’attenzione continuativa.
“Ogni immagine è una piccola avventura” per il Magritte della foto, sempre impegnato a sfidare la visione razionale del mondo.
Ognuno dei nove racconti che compongono il libro di Tabucchi è una storia finita che contiene in sé tutti gli elementi per costruirci su un intero romanzo.
Sono storie raccontate con un pathos così intenso e ammaliante da agire sulla sfera delle emozioni fino a distogliere l’attenzione dalla trama. Storie di personaggi emblematici tanto diversi tra loro ma accomunati dalla convergenza coscienziale dell’inarrestabilità e inafferrabilità del tempo e della profondità dei solchi che il suo scorrere lascia sulla vita delle persone.
Racconti che si snodano attraverso lo scandire del tempo, non solo del tempo personale, famigliare, della storia passata e recente ma anche del tempo dello spirito, appesantito da un carico di rimpianti e malinconie che inducono i protagonisti ad andare avanti col capo rivolto indietro, guardando al passato con l’occhio deformante della nostalgia mitizzatrice.
Storie di esistenze legate dal fil rouge della “saudade”, quella “inesplicabile sensazione di rimpianto, di malinconia e, al tempo stesso, desiderio di raggiungere l’inaccessibile”.
Storie realmente esistite, ascoltate, raccontate e disposte nel libro senza rispettare la cronologia di scrittura, precisa l’autore nella postfazione. Ma l’impatto con il primo racconto è forte: un lavoro perfetto nella forma e sorprendente nel contenuto che racchiude in se tutti gli elementi che ritroveremo nelle storie successive.
Intenso, suggestivo, quasi metafisico “Il cerchio”, racconto d’apertura che da solo giustifica l’intero romanzo. E’ il cerchio tracciato sul terreno da una mandria di cavalli che gira vorticosamente attorno alla protagonista del racconto al pari dei ricordi che affollano la sua mente. La donna, confusa dagli inganni della memoria tra ricordi e “falsi ricordi” che si susseguono senza una linearità temporale, sembra prigioniera più della dimensione claustrofobica della sua esistenza che della situazione contingente. Il cerchio evoca in lei il “sentimento di se stessa”; il cerchio, la forma più perfetta, simbolo di Dio e del cielo, figura che esprime la circolarità del tempo, di quel tempo che sembra volato via come aria, lasciando sepolte “nella sabbia della memoria” le risposte ai tanti interrogativi esistenziali che hanno scandito la sua vita.
Clof…clop…cloffete…cloppete…il tempo scandito da onomatopee differenti, ad indicare la variazione di intensità delle gocce che, cadendo, emettono un suono che segue una loro scala musicale. Gocce che scendono da una flebo che alimenta una persona amata e che implodono nel cervello del protagonista del secondo racconto facendo affiorare “ da un’eternità di tempo” personaggi e vicende confuse, avvolte da uno strato di nebbia che si dirada davanti al sorriso di una bimba malata terminale.
Registro stilistico più snello che favorisce una lettura più spedita in “Nuvole”. Una conversazione che tocca argomenti di notevole spessore culturale tra una bambina, resa adulta anzi tempo dai “dissidi esistenziali” dei genitori separati, e un militare in convalescenza dai danni provocati dall’esposizione all’uranio impoverito. Alla bimba, in cura dallo psicologo per le conseguenze di traumi che lei chiama “crisi dell’età evolutiva”, l’uomo insegna la nefelomanzia, l’arte di indovinare il futuro osservando le nuvole.
Un bilancio fallimentare della propria esistenza è quello che deve tracciare il protagonista del quarto racconto, un uomo benestante che vive una situazione di agiatezza e apparente sicurezza ma soffre di sbalzi di pressione imputabili, a detta del suo medico, a stati ansiosi immotivati. E’ un ex agente della ex Repubblica Democratica Tedesca che ha vissuto il crollo del muro di Berlino e delle ideologie dallo stesso simbolicamente sostenute. Ma il muro è crollato e dai dossier custoditi negli archivi della polizia è emersa una verità inquietante che pesa sul suo cuore come un macigno. La consapevolezza che la condivisione di un dolore con un amico può contribuire ad alleggerire il carico spinge l’uomo a recarsi al cimitero, dove riposa “nell’eternità orizzontale” la persona che per anni ha pedinato, condividendo ogni istante della sua vita e che per questo adesso sente a lui più vicino di qualsiasi altro amico: Bertold Brecht.
“Fra generali” molte “congetture” e una certezza: se la guerra non li avesse divisi, due uomini di grande spessore sarebbero potuti diventare grandi amici uniti dalle stesse grandi passioni.
“Yo me enamoré del aire”, il potere evocativo di una canzone, la sensazione di straniamento provocata da quelle note in un uomo che continua a sentirla dentro di sé come un’eco che lo proietta “verso una lontananza che non sapeva dove”.
Un viaggio nella storia contemporanea negli ultimi racconti, occasioni di feroce critica ai regimi totalitari, al reato di pensare in modo diverso dallo Stato, ai processi farsa le cui sentenze sono già scritte prima della seduta, alle leggi razziali, alle illusioni create dalla “pappina dell’eterna giovinezza della falsa scienziata”, ai lager, ai campi di rieducazione, ai manicomi giudiziari, alla pretesa di “lustrare la memoria per farla funzionare come vogliono loro”.
Un viaggio in aereo “Controtempo” che allontana un uomo dalla destinazione reale per proiettarlo in una dimensione borderline tra sogno e realtà, evocando un déjà vu liberatorio “come quando finalmente capiamo qualcosa che sapevamo da sempre e non volevamo sapere”, a chiusura del viaggio tra passato remoto e passato prossimo nel quale siamo stati condotti da Tabucchi attraverso la sua scrittura.
Una scrittura a volte fluida ed accattivante a volte complessa ed articolata, mai banale nella preferenza della parola, singolare nella scelta di abolire la virgolettatura dei dialoghi a vantaggio di una lettura più fluida ma di una comprensione meno immediata, perfetta nella forma quasi al limite del compiacimento manieristico, ricca di contenuti, citazioni e personaggi che offrono numerosi gli spunti di approfondimento anche a rischio di far prevalere l’uomo di cultura sullo scrittore.
Didascalico, nell’accezione più positiva del termine, il messaggio che recepiamo sin dalla copertina: servono trampoli altissimi per guardare oltre l’orizzonte visibile, per valicare i limitati confini di una quotidianità resa asfittica da condizionamenti di varia natura e aprirsi ad uno sguardo di più ampio respiro, pregno di comprensione, indulgenza, umanità, con la consapevolezza che “ non c’è futuro senza memoria”
Daniela Gerundo
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