mercoledì 5 febbraio 2014

"THE COUNSELLOR" di Ridley Scott



“Il Trionfo della morte”, l'ultimo della trilogia dei Romanzi della Rosa dopo “Il piacere e“L'innocente.
Rimanda agli steps della trilogia di Gabriele D'Annunzio la trama dell’ultimo film di  Ridley Scott “The Counsellor”, una saga dei cattivi sentimenti …a  lieto fine, in fatto di cattiveria!
 La ricerca edonistica del piacere e del lusso spinge il già ricco e famoso avvocato Fassbender ad addentrarsi nel mondo del narcotraffico non  solo per motivi professionali ma per trarne un profitto personale.  Si perderà un labirinto di crudeltà e violenza del quale non riuscirà a trovare l’uscita, precipitando in un vortice di brutalità in cui trascinerà anche  l’innocente compagna.
 Un cast di grande richiamo a garanzia di tutela da critiche per una trama non scontata ma supportata da ingredienti di sicuro effetto: un po’ di sesso spudorato, qualche lacrimuccia di troppo, perle di saggezza a profusine, un pizzico di citazioni colte, splatter q. b. !
 Michael Fassbender, Penelope Cruz, Cameron Diaz, Brad Pitt , Javier Bardem, grande dispiego di forze per una storia che impegna l’attenzione dello spettatore per circa due ore, senza il dovuto intervallo tra il  primo  e  il  secondo  tempo, ad evitare la distrazione da pop corn.
 Personaggi connotati da stravaganza formale ed esistenziale, non esenti da paradossi e contraddizioni quali l’anaffettività conclamata e la dipendenza da figure femminili dominanti; il distacco emotivo da tutto  e le citazioni di poeti come Antonio Machado; le considerazioni morali sui grandi temi dell’esistenza e la sfida quotidiana della morte per denaro e potere.
Esistenze vissute su fili d’acciaio che decapitano, dissanguano, tranciano dita e vite sotto l’occulta regia dell’unica persona capace di coniugare cupidigia e ragionevolezza. Gli eventi mostrano i protagonisti in tutte le  loro fragilità : il terrore dell’avvocato quando si rende conto di aver troppo osato; l’ostentata sicurezza di Bardem che gli fa ignorare elementari norme di prudenza; l’autoreferenzialità di Brad Pitt che gli annebbia la capacità di tempestiva valutazione degli eventi. E poi l’ingenua Penelope che mostra alla famelica Cameron l’anello di fidanzamento da 4 carati, suscitando rabbiosa invidia, non per l’oggetto in se ma per quello che lo stesso rappresenta: l’amore devozionale di un uomo di successo. Quello che a lei, truccata e tatuata come i suoi amati felini, la vita ha negato consegnando la sua anima ad una aridità affettiva che rispecchia i luoghi desertici in cui si svolge la complessa vicenda.
E’  un  mondo in cui “si spara al buio nelle strade e poi si va a vedere chi si è colpito” ammonisce il barista al counsellor ormai consapevole di essere sceso in guerra disarmato contro i sanguinari boss della malavita abituati a gestire i loro affari  con ferocia ferina, mentre lui  ha conservato quel patrimonio di umanità che gli sarà fatale. Nel sistema efferato in cui si è voluto introdurre scorgendovi l’occasione della sua vita, non sono consentiti ripensamenti o pentimenti e egli errori di valutazione si pagano con conseguenze sproporzionate.
 Il finale  del film giunge lasciando all’intuizione dello spettatore dettagli raccapriccianti facilmente immaginabili e consegnandogli i codici non scritti che governano il mondo dei loschi affari: l’assenza di humana pietas, il dispregio della vita umana, la consapevolezza che ad ogni azione corrisponde una reazione amplificata all’ennesima potenza. Il messaggio che si recepisce è di ispirazione morale: quando la vita affonda  le radici nelle falde acquifere avvelenate dal male in tutte le sue feroci espressioni la naturale conseguenza  è  il trionfo della morte.
Daniela Gerundo

mercoledì 4 dicembre 2013


STORIA DI IRENE – Erri De Luca

Una fiaba in prosa poetica. Versi profondi come il Mar Egeo che circonda l’isola di Flores; lievi come le onde “a riccioli di burro” che ne lambiscono le coste; leggeri come la brezza che smuove la folta e bionda capigliatura di Irene, l’adolescente che lì dimora. Creatura venuta dal mare della quale nulla si conosce se non l’evidente stato di gravidanza, Irene è guardata con diffidenza e sospetto dagli abitanti della piccola isola, che si percorre “da un capo all’altro con un giorno di cammino”. Non se ne cura la silenziosa fanciulla, abituata ad essere trattata da tutti come “un’ombra sul muro”. Matrigna è la terraferma con Irene, mentre il mare, nel quale si immerge nelle ore notturne, l’abbraccia e l’accarezza. Nuota con i delfini Irene; con loro vive e comunica da amica, sorella, madre; li considera la sua vera famiglia. La comunità dei cetacei l’ha amorevolmente accolta più di quanto non abbiano fatto le donne e gli uomini del posto.

Solo con lui Irene comunica, con lo scrittore anch’egli venuto dal mare che le racconta storie e vuol conoscere la sua storia. Hanno bisogno di storie gli uomini per “accompagnare il tempo e trattenerne un poco”. Sono storie senza finale, osserva Irene; storie che si fermano un attimo prima. Ne è consapevole lo scrittore che le storie non le inventa; le raccoglie come “resti lasciati dalle processioni della vita”. Ma della storia di Irene conoscerà il finale perché lui è lì, in stato di emozionata latenza, a viverla con lei, a prospettare evoluzioni differenti che il futuro potrebbe riservarle: giovani maschi, musica, balli, amore, bambini e il rispetto della gente. Sorride Irene e si discosta dallo scrittore lasciandolo ancora una volta senza il finale, perché la storia di Irene comincia da sé stessa, senza il tempo accordato prima, senza le lusinghe del futuro …. è bellezza pura che si immerge nel mare, con un sorriso “a tutte le Irene che non sono lei stessa, però potevano”.

 Un finale didascalico come si conviene ad ogni fiaba; la consapevolezza delle priorità della vita reale mediata da una storia fantastica; la solitudine vissuta non come forzato isolamento ma come sublime forma di libertà costituiscono gli spunti di riflessione sui quali la storia induce a meditare. Le nuotate notturne della bimba delfino che non teme il buio e gli abissi rimanda al gabbiano uomo che non ha paura di volare sempre più in alto; Irene e Jonathan Livingston,  nella bellezza di tuffarsi nel mare o  librarsi nel cielo , esprimono il significato profondo della vita: la ricerca della libertà. Quella libertà alla quale tante persone ambiscono ma a cui  rinunciano per paura di essere giudicati, per becera ipocrisia, per falsa morale.

 Irene incarna quella meravigliosa idea di tensione sincera e decisa verso la verità; aspira ad un ideale diverso di libertà, di spazi e cieli azzurri,  di soffio di vento e mare spumeggiante. Diventa così il simbolo di chi ha il coraggio di seguire la propria legge interiore senza lasciarsi influenzare dai pregiudizi degli altri e tutta la sua storia si connota come una  metafora per riflettere sulla condizione umana troppo spesso costretta in schemi e ruoli ingessati che non lasciano spazio alla fantasia, alle aspirazioni, ai sogni.

Daniela Gerundo

lunedì 11 novembre 2013

ROSSO ISTANBUL – Ferzan Ozpetek


 

Una sceneggiatura, non un semplice romanzo. Capitoli brevi, ognuno con una storia a sé  che traggono  linfa dai sentimenti e dalle fragilità umane per  produrre , infine,  l’armonia di un racconto autobiografico forte e dettagliato, autentico  e spassionato nel quale ritroviamo le cifre stilistiche che già caratterizzano il  linguaggio filmico di Ozpetek.

E’ un linguaggio tipico il suo quando parla di relazioni umane e sentimenti :  attento, delicato, ironico, composto, dotato di una leggerezza tale da non offendere alcuna sensibilità. Ci aspettiamo di poter rivivere nelle sale cinematografiche le emozioni che Ferzan ci ha comunicato schiudendo ai nostri occhi le pagine di un diario di viaggio intimistico nel quale racconta il suo percorso di crescita come regista e come uomo.

 E’ la storia di un bambino che, rincorrendo i sogni, raggiunge da adulto la felicità e la completezza nella personale realizzazione. E’ la narrazione di un  percorso di vita che da  Istanbul  lo  porta a Roma attraverso molti mari, oceani, spiagge per approdare, infine, verso Sud, in un “posto caldo che esiste solo dentro di noi”.

Sono pagine sussurrate, ammantate di sensualità e seduzione, perché la parola giusta che incide e colpisce non è quella urlata. I toni accesi sono riservati ai colori dei tulipani, al profumo dei tigli, alle tinte  dei tramonti sul Bosforo, all’azzurro del cielo che  ti fa venir voglia di essere aquilone, al rosso dei melograni, dei tram, dei carrettini dei venditori ambulanti  di ciambelle al sesamo.

Sono pagine pervase dall’huzun, l’equivalente del portoghese saudade, quel sentimento a metà tra malinconia e nostalgia; quella sensazione di straniamento di fronte ai crimini del cuore; quella struggente nostalgia per le occasioni mancate: l’occasione di vivere appieno il rapporto col padre, con la sorella Filiz, con l’amico Yusuf, con l’amata Neval.

Occasioni mancate anche per Anna e Michele, personaggi della storia parallela che nel libro si sviluppa assieme alla  vicenda personale del regista, protagonista della storia : due vicende iniziate assieme, destinate ad incrociarsi e convergere , alla fine, verso un’unica direzione.

 Un incontro in aeroporto, luogo non propriamente indicato per abbracci e addii come lo sono le stazioni ferroviarie.

 Il regista prende lo stesso aereo di  Anna e Michele, sposati da vent’anni, che viaggiano con una coppia di  giovani amici, Elena e Andrea. Un viaggio di lavoro stravolgerà le esistenze di tutti e si trasformerà per Anna in un’occasione per affrancarsi  da abitudini sedimentate, per  liberarsi dal continuo bisogno di controllo,  per strapparsi di dosso la vita come un vestito ormai vecchio e recuperare la propria  autenticità, per  risvegliarsi da un lungo torpore. “Impara dai fiori perché loro lo sanno che dopo un gelido inverno arriva la primavera” diceva  il nonno di Anna. “ Vorrei fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi”  recita il giovane Murat incontrato in strada mentre incide un graffito sul muro. “ Quando è stata l’ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta?”  E’ l’inizio di una “rivoluzione”  personale che coincide con la rivoluzione dei giovani e di tutta la  popolazione contro una speculazione edilizia che il governo  vuole realizzare demolendo un’antica sala cinematografica.

 Nel corso della manifestazione viene arrestato il regista che riconosciuto, verrà subito rilasciato. Il rientro a casa sarà per l’uomo occasione di confidenze e confessioni con l’anziana madre; il momento delle verità a lungo nascoste, dei consigli e delle considerazioni. Sull’amore. L’amore che succede e basta. Perché non esiste un motivo per cui innamorarsi. Si è guidati da leggi misteriose e nel mistero bisogna cercare di rimanerci il più a lungo possibile. Perché niente è più importante dell’amore. L’amore non fa differenze di sesso : sceglie e basta. E non bisogna sorprendersi se si  possono amare due persone contemporaneamente.

L’amore lega a noi in modo indissolubile anche le persone che abbiamo amato e non ci sono più. Solo l’amore può rafforzare le fragilità e contrastare il mal di vivere che a volte ti fa scegliere il buio invece della luce. Nella vita occorre comprendere le debolezze delle persone che amiamo, non fermarsi all’apparenza delle situazioni ma comprendere l’essenza dei sentimenti che le hanno determinate e saper perdonare. Perdonare anche la propria madre che ha taciuto un’importante  verità sulla vita del padre. Lo si può fare attraverso i versi del poeta  Nazim Hikmet che parlano di speranza e di fiducia nel futuro.”….i più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto”.   Il futuro  è come il sorgere del sole. “Brindiamo a tutte le albe che verranno” sono le parole che Anna sente pronunciare da Andrea . L’ha vista anche lei l’alba, quella in cui il mondo si è capovolto e la sua esistenza non è stata più la stessa. Una luce di positività e speranza pervade le ultime pagine del diario di viaggio nella memoria nel quale ci ha condotti  Ferzan Ozpetek  il cui nome vuol dire “ l’ultima luce del tramonto”.

Daniela Gerundo

 

venerdì 13 settembre 2013

“Fai bei sogni” - Massimo Gramellini



“Fai bei sogni”


Massimo Gramellini



No, dico … ma siamo impazziti?! Un milione di copie vendute, quattro edizioni in un anno, 225.000 copie in una settimana, il libro più venduto del 2012… Molto rumore per nulla. Più di trecento riletture, sei mesi circa di correzioni ed una squadra di 12 editor per confezionare un prodotto destinato per nascita     (al pari del Royal baby) a regnare sulle classifiche delle vendite di libri.

Onore e merito al padrino di battesimo, Fabio Fazio, che sembra aver raccolto l’eredità di Maurizio Costanzo. Per più di 20 anni il Costanzo Show ha decretato il successo di chi aveva il pass per accomodarsi nel salotto della vetrina televisiva più seguita d’Italia.

Da un po’ di tempo, lo scettro di Re Mida del piccolo schermo è passato nelle mani di Fazio: nelle vesti di anchorman di programmi calcistici e revival musicali, di presentatore del Festival, di conduttore di format di approfondimento comico – satirico con spunti meteorologici, gli indici di ascolto e di gradimento sono sempre garantiti.

La risoluzione dell’ormai esausto connubio tra Fazio ed il paludoso Saviano ha spalancato le porte al gioviale Massimo Gramellini, giornalista sportivo, ironico q. b., sentimental popolare tanto da dirigere la rubrica di “ posta del cuore” dello “Specchio” , oscurando così la fama di “Donna Letizia”  e della “Contessa Clara”! Ma di quali credenziali è in possesso, il giurista-giornalista, per teorizzare soluzioni placebo per cuori in affanno? Almeno Crepet e Pasini, gli psichiatri – scrittori, possono vantare titoli accademici, specializzazioni e impegno professionale negli ambiti di pertinenza dei tormenti esistenziali.

Far riferimento unicamente al proprio vissuto, quale fonte di saggezza dalla quale attingere consigli, esortazioni e moniti ci sembra un po’ riduttivo.

Scorrendo le note biografiche troviamo:

un grave lutto (e quello ce l’abbiamo tutti!)

due mogli (oggi costituiscono la normalità!)

la difficoltà a relazionarsi con le donne (e chi le ha mai capite!)

una figura genitoriale fredda e distaccata (come lo erano tutti i padri di una volta!)

un percorso di vita tutto in salita … fino all’incontro con l’Amore (mah…!)

Non bastavano Volo e Moccia ad ammorbarci con storie di questo tipo!

Ci son volute 200 pagine di puntelli di sostegno per sorreggere una struttura fragile, la storia autobiografica dell’elaborazione di un lutto, della sublimazione del dolore nel perdono.

La caratterizzazione del protagonista è prevalentemente di natura psicologico-comportamentale.

 L’improvvisa assenza dell’amorevole figura materna ingenera nel bambino Massimo “un bisogno disperato di dichiarare guerra al mondo intero” e, allo stesso tempo, la consapevolezza che i nemici dai quali difendersi albergano in sé stesso.  “Chi è stato abbandonato si sente colpevole di qualcosa d’indefinito”. Massimo contrasta il senso di colpa rifiutando la realtà, negando la morte della madre e coltivando la segreta speranza di vederla improvvisamente ricomparire. La figura materna è mitizzata, trasfigurata dallo specchio deformante della memoria, ma il non sentirsi più amato nutre il demone dell’aggressività. C’è un mostro dell’anima, Belfagor, che si alimenta delle sue paure: sfiducia, rifiuto, abbandono, senso di disagio e inadeguatezza. Un mostro che lo rende incapace di alzare gli occhi al cielo, di tenere i piedi ben piantati a terra, che lo indirizza verso scelte sbagliate: gli studi universitari, la fidanzata sempre smaniosa di vedersi riconfermare il suo fascino. Un mostro che lo rende incapace di inseguire i suoi sogni perché i sogni sono radicati nell’anima e la sua è anestetizzata dal dolore.

Ma il lieto fine è in agguato; è nascosto in un ritaglio di giornale che viene consegnato a Massimo in una busta misteriosa con 40 anni di ritardo…..proprio come le Poste Italiane. La busta, in effetti, è comparsa nella prima pagina, ma lo scrittore è ricorso all’ordo artificialis, procedimento che interrompe la narrazione per raccontare i 40 anni precedenti e stimolare così le aspettative del lettore. Il mistero svelato, in effetti, rimanda al sensazionalismo dei proclami di Carlo Taormina nel “caso Cogne”: colpi di scena destinati a sgonfiarsi come palloncini non ancora annodati che sfuggono di mano con traiettoria irregolare e suono isterico! Quando finalmente il mistero è svelato siamo già verso pag.180 e neanche gli editor sanno più cosa inventarsi per evitare un finale un po’ frettoloso, sdolcinato , dagli esiti scontati: lui, lei e il cagnolino bianco ( sarà mica Dudù?!)

Un quadretto famigliare già abusato in pubblicità e proclami politici.

“ E’ che mi è sempre piaciuto il lieto fine”  si giustifica l’autore, ormai depurato dopo un soggiorno nel centro benessere “Le terme dell’anima”.

“Una lettura da ombrellone”, ci giustifichiamo noi, ormai alleggeriti dei 15,00 euro destinati al “fatebenefratelliautori” consorzio di scrittori-venditori di sogni e belle speranze con penna leggera e tasche pesanti.

 In fin dei conti il libro si legge in una mattinata al mare. Scorrevole, anche troppo: sintassi semplificata, periodi lineari, scelte lessicali generiche, poche citazioni colte, molti contributi degli editor, qualche eccesso mellifluo, aforisma iniziale di Eric Hoffer pertinente, struttura narrativa in ordine indiretto, registro medio-colloquiale. Un mix di elementi ben armonizzati per la costruzione di un prodotto destinato al pubblico dei cinepanettoni, quelli che leggono o vanno al cinema per distrarsi ma che provocano improvvise positive impennate nei riscontri di cassa e botteghino. Parafrasando Oscar Wilde "parlate pure male di me, purchè ne parliate" dobbiamo augurarci “…..….purchè si legga!!!”


Daniela Gerundo



lunedì 28 gennaio 2013

PER SEMPRE CARNIVORI di Cosimo Argentina


Una tragedia. Una tragedia affrancata dalle aristoteliche unità di tempo, luogo ed azione; svincolata da un rigido schema che ne possa definire forme e scansione temporale attraverso la sequenzialità di prologo, azione ed esodo, o di un epilogo.

Una tragedia che si svela al lettore materializzandosi su una tela tessuta srotolando e riavvolgendo la matassa narrativa attraverso un racconto frammentato dal continuo ricorso a flash back e digressioni : sulla morte, sul tempo, sulla fortuna, sulla donna, sull’amore, sul suicidio.

Una tela sporca di tutto: sangue, escrementi, liquidi organici, alcol, vomito copiosamente disseminati in corso di smargiassate notturne dai tre Mr. Hyde  Leone Polonia, Giuseppe Maconi, Goffredo Monti, tre … insegnanti precari … in cerca  di… punteggio.

Mako è morto, scannato come un tràgos sacrificato al Dio Dioniso per espiare i peccati del gruppo. Ma dalla tragedia che qui si rappresenta non scaturirà la catarsi, la purificazione dei mali, la presa di coscienza dei propri limiti. L’arido e ingeneroso humus degli angusti spazi di provincia alimenta i germogli della perversione, della violenza, dell’aggressività in personaggi già corredati del personale bagaglio di frustrazioni, lutti non elaborati, propensione a delinquere e a prevaricare. “ Tutti incidentati in questa storia”  “ Tutti sconfitti in questa tragicommedia”

Personaggi come maschere…uno…nessuno…centomila…che si muovono sulla scena come entità distinte, lacerate dalla inconciliabilità tra l’essere e l’inganno dell’apparire; svelando la propria tormentata dimensione psicologica; palesando la parte animale, selvaggia, istintiva presente anche nell’uomo più civilizzato come parte originaria, insopprimibile, pronta ad esplodere quando l’alcol o la coesione del branco allentano i freni inibitori.

Personaggi catalogati dall’autore secondo una personale tassonomia che classifica le femmine in base al grado di “ disponibilità sessuale” ed i maschi rilevandone il livello di dissolutezza. Primus inter pares il padre di Leone, “il pazzo”, “il vecchio”, “il porco” , “il gremlin”,  pedofilo, alcolizzato, violento , manesco ma comunque amato. Un anelito di amore paterno già manifestato da Camillo Marla, da Mino Palata, figli unici del modello di famiglia che ricorre nelle narrazioni di Argentina : padre, madre e figlio sempre con le stesse connotazioni. Negativa in modo esasperato ed esagerato la figura paterna; amorevole, conciliatrice, comprensiva ed indulgente la madre, capace di “guardare negli occhi come solo una madre sa fare”; tormentato e afflitto il figlio. Leone ama la musica argentina Meola , Piazzolla “‘sti argentini, fa’ che conoscevano l’amarezza che mi portavo dentro”;  ma è  dilaniato da un odio  “che eclissa i sorrisi”,  perché “avevo mille motivi per odiare … avevo qualcosa che mi faceva andare in bollore nevrastenico … se avessi potuto avrei scotennato tutti”. Idealista arrabbiato Leone, perché “ io credevo ancora che un uomo dovesse guardarsi intorno, cercarsi dentro, essere solidale con l’inferno che si trascina dietro”. “Tu sembri un duro ma in realtà devi essere un esistenziale…” sentenzia il rude Antonio, custode della “Nuova Caledonia”  la scuola privata proscenio della mise en scène dove si rappresenta la tragica pièce  di una morte annunciata.

Maschere grottesche, pagliacci e acrobati si agitano nel Grand Guignol della vita di provincia, personaggi che  vengono sparati nel racconto con tutta la  loro carica devastatrice ma che conosceremo attraverso dettagli anagrafici identificativi solo nelle pagine successive, non prima di averne appreso le schizofreniche condotte. Soggetti irrisolti alterati nel pensiero e nelle azioni, “pronti a violare la sacralità del silenzio con parole vane” e gesti inconsulti: il gregge pelvico, i cremati dell’ultima fila, i cuccioli di varano,  l’albatro Nadali, Lia, Rita, Concetta, Dio, Gianna, la recchia di Torino, i briganti di Leporano e Pulsano.

Vittime e carnefici spaziano su e giù per il racconto, come i vagabondi  che aspettano Godot, animati dalla stessa inquietudine e insofferenza che pervade l’io narrante e rimanda allo scrittore stesso.

Il dinamismo della scelta stilistica si rivela funzionale al pathos del lettore, alla necessaria tensione emotiva che lo spinge alla conoscenza di una storia il cui finale è svelato già in prima pagina; una storia scritta da soggetti “cinici ad oltranza” tutti “sorrisi e lacrime salate” sui quali aleggia la morte, sempre pronta a rubare la scena ai protagonisti  facendo sibilare la falce sui loro affetti: le madri di Leone e “il dentuso” che per questo diventano “fratelli di morte”, la nonna del “bamba”, e poi Raggi e Mako.

Ma la perdita degli affetti non è imputabile solo alla morte, c’è un pericolo più grave  che incombe sulla fragilità umana: l’innamoramento  “ non doversi innamorare mai perché amare voleva dire vivere nel terrore di perdere un affetto”. Polonia, “forestiere della vita” se ne  tiene a distanza di sicurezza anche perché a 25 anni “dovevo ancora conoscere la persona con cui scompariva il mio disagio senza bisogno della fortificazione dell’alcol”.  Amore. “Quel petardo fatto esplodere in una cristalleria nel giorno dell’inaugurazione”, l’alchimia di uno stato tra sogno e realtà che motiva ogni follia, che detta comportamenti imprevedibili; quell’impulso dei sensi che governa il nostro agire, ma che non può arrivare a giustificare una testa mozza e una schiena spezzata all’alba di un giorno di maggio.

Eppure  “s’è consumato un disastro nato dal desiderio d’amore” o forse è stato valicato l’ impercettibile confine tra realtà e finzione perché abbiamo bisogno di credere che ci sia dell’altro, di osservare le cose da un punto di vista imprevisto, di proiettarci in una dimensione borderline tra sogno e realtà affrancandoci da una  quotidianità resa asfittica da ogni sorta di condizionamenti.

Polonia, Mako e “dentuso”, gli equilibristi del Gran Guignol hanno camminato sulla fune del desiderio di raggiungere l’inaccessibile e adesso che “i creditori sono stati onorati” recepiscono qualcosa che sapevano da sempre e non volevano sapere. Ma forse un giorno, nel valutare questa storia di vittime e carnefici, di amore e di passione  qualcuno dirà che “si trattò solo d’amore”.

Daniela Gerundo

 

 

 

 

lunedì 3 gennaio 2011

Vicolo dell'acciaio di Cosimo Argentina



L’impressione che si riceve dalla lettura dei suoi libri è che Cosimo Argentina si serva della scrittura come strumento per “elaborare un lutto”; come mezzo per sublimare il dolore e racchiuderlo nelle pagine; come tramite per trasformare in energia creativa la rabbia che sente implodere in sé; come sistema per commutare i vibranti sentimenti che lo animano in parole scritte.
Parole che necessitano di un’attenta lettura per poter recepire i messaggi in esse sottese. Occorre, infatti, saper leggere tra le righe più che le righe di quelle pagine per ritrovarvi le spinte emozionali che a quei racconti danno vita senza mai essere apertamente palesate, al massimo alluse: l’amore viscerale per la propria città; i legami indissolubili con quel “cumulo di pietre e di cristiani”; lo stupore davanti agli incredibili colori dei tramonti occidentali; l’orgoglio dell’appartenenza ostentato attraverso il ricorso ad un lessico famigliare strutturato su un vernacolo blindato e codici comunicativi fatti di versi della bocca supportati da cenni della testa.
La nostalgia originata dall’assenza di tutto questo e molto altro, il dolore generato dalla forzata lontananza dalla sua città, pari per intensità al patimento di un innamorato respinto, alimentano la scrittura torrenziale di Argentina definendone le cifre stilistiche ma anche i condizionamenti più evidenti.
E’ una narrazione avviluppata a luoghi situazioni e personaggi che hanno segnato la sua crescita; radicata nella cultura della terra d’origine ,alle usanze, alle abitudini, ad un modo confidenziale di relazionarsi tipico delle piccole comunità, dove tutti hanno un soprannome identificativo, dove si tende a consorziarsi in una comune rete di protezione e di sostegno.
E’ una narrazione espressa attraverso un gergo colloquiale e localistico che non facilita Argentina nel trovare editori disposti a riconoscergli i meriti dell’autenticità del sentire,della libertà d’espressione, del rifiuto delle snaturanti rivisitazioni dei consulenti letterari,del sentirsi svincolato dai tempi “dell’umano sistema fognario”.
E’ una narrazione fremente di passione che, con la portata di un fiume in piena, rompe gli argini imposti da precise indicazioni editoriali e travolge il lettore anche con la sgradevolezza di alcuni dettagli ma con la leggerezza dell’ironia quale sublimato dell’ira; con uno stile vivace in cui il sorriso amaro ha il sopravvento sullo sdegno per le ingiustizie sociali e sulle avversità della sorte in cui si dibatte una popolazione che ci rimanda al “ciclo dei vinti”.
In Vicolo dell’Acciaio Mino Palata racconta l’evolversi di una generazione del quartiere nel quale Cosimo Argentina è realmente cresciuto. La scenografia è resa dai profumi, suoni, rumori di quelle strade; dalle voci della tribù tarantina, dai rituali tipici del familismo meridionale. E’ il quartiere della mitica e mitizzata Via Calabria dove il 90% delle famiglie ha il capo che “se la spassa nel siderurgico”, beve caffè Ninfole, tracanna birra Raffo.
Quella dei capifamiglia è una carovana di antieroi che avanza su colline di carbon fossile e polveri ferruginose con genetica rassegnazione; con la consapevolezza che nel caravanserraglio dell’acciaio si baratta la vita per la sopravvivenza; che a nessuna caduta seguirà un pronto riscatto; che una naturale selezione della specie permetterà solo ai più forti di concludere il ciclo lavorativo nei gironi infernali dell’industria siderurgica, esentandoli da malattie invalidanti, rare forme tumorali, mutilazioni nel corpo e nell’anima. Una ingenerosa predestinazione sembra condannare i maschi del vicolo al ruolo di vittime sacrificali secondo un copione che si ripete per generazioni con scontata prevedibilità e passiva accettazione.
Inutili le manifestazioni di protesta contro gli sbuffi venefici del mostro d’acciaio; c’è il rischio di rimanere vittime dei raggiri delle associazioni degli “ambientalisti del giovedì”, personaggi incompetenti desiderosi solo di strumentalizzare il dolore della gente per acquisire un potere contrattuale.
Alle famiglie colpite resta il conforto del “consolo”, un rituale di solidarietà dell’indotto umano che comunque si sforza di migliorare l’avvenire dei propri figli attraverso gli studi universitari, guardando alla laurea come documento valido per espatriare dal vicolo e sdoganarsi dal destino di “gechi” attaccati al muro del bar di Mest’Arturo.
Gli studi di Mino però sembrano arenarsi al capitolo “Prescrizione e Decadenza” di un esame duro da superare quanto le prove che gli riserva il destino: l’impatto con l’amore, il peso dell’assenza, l’addio di Isa; la morte dei primalinea;il sogno proibito della dea condominiale, un nastro di Mobius da “percorrere” all’infinito; l’incomunicabilità col “generale dagli occhi lisergici” suo padre, ingombrante e assoluto,ma per lui un mito vivente; la compassione per la madre, una santa donna che “si riprende sempre”, con la bussola sempre in mano a segnalare il nord magnetico in una casa dove domina l’anarchia.
Il racconto è alleggerito da riferimenti a reali fatti di attualità e a citazioni che rimandano alle passioni del nostro scrittore: la musica di James Brown; il calcio dell’Audace Usac; la poesia del Pascoli nel Gelsomino Notturno; Manzoni con le risposte della sciagurata Gertrude-Vincenzina; André Brink, in Un’arida stagione bianca;le donne tarantine, le più belle del sistema solare; i fumetti di Tom Mix.
Ma, leggendo tra le righe ,scopriamo ciò che Cosimo ha voluto comunicare attraverso Mino: la rassegnazione uccide più della diossina. E Cosimo parla della sua rabbia quando Mino fa l’amore con Isa “…non c’è passione , c’è solo un maschio furioso, incalcolabile…con uno straccio di anima nera che lotta contro qualcosa che si arrotola nel buio del suo cervello…un animale ferito che cerca di bucare il manto nel quale è costretto a vivere….le ferite vengono a galla e combatto contro i demoni…Il piacere porta alla luce il terrore a cui è vincolato”. E’ la rabbia del lutto non elaborato; di chi non si arrende davanti allo spettacolo della sua città violata, della decadenza che distrugge quotidianamente strutture e speranze; di chi si aspetta delle reazioni forti da parte di chi invece ha scelto di lasciarsi vivere o morire; di quello a cui la laurea ha meritato l’esilio,ma che anche da lontano urla la sua rabbia attraverso i suoi libri o la rubrica sul nostro quotidiano locale, manifestando un amore che se fosse nell’animo di tutti i tarantini basterebbe a contrastare le mire dei colonizzatori e la rassegnazione di una classe politica che cambia colore ma non l’arrendevolezza di fronte al ricatto occupazionale.
E’ Cosimo quando Mino fa l’amore , e noi l’amiamo perché è così.
Daniela Gerundo

domenica 28 novembre 2010

"La melodia del corvo" di Pino Roveredo


Un immondo Grand Guignol di nefandezze, un circo animato da “equilibristi della provvidenza” e “giocolieri della disgrazia” è il microcosmo in cui riecheggia, roca e sgradevole, “la melodia del corvo”; un sottoscala della vita abitato da personaggi grotteschi che hanno derubricato l’amore dalla loro antologia della sopravvivenza, scritta con l’inchiostro della bile nera e con la mano scossa dai fremiti delle crisi d’astinenza.
Nelle zone d’ombra della loro “Corte dei Miracoli” si aggira un substrato di umanità con la coscienza narcotizzata da una permanente anestesia affettiva: prestigiatori abili nel trasformare il denaro in fumo e il fumo in delirio; temerari saltimbanchi che valicano la montagna della vita con “capriole in salita”; picchiatori scelti pronti ad avventarsi con inaudita violenza sugli insolventi compratori di illusioni in bustine; funamboli maldestri nel loro deambulare in perenne equilibrio instabile, sulle corde tese ai confini di una umanità possibile, senza la sicurezza della rete di protezione ad attutire le inevitabili cadute. Una rete predisposta ad accogliere, come in un amorevole abbraccio, chi è lontano dagli schemi della perfezione che il mondo al di fuori della tenda esige.
Situazioni estreme, personaggi esasperati, il tempo della vita scandito da un ritmo concitato che Pino Roveredo traspone sulle pagine del suo ultimo romanzo con una scrittura affannosa, sincopata, con le approssimazioni della lingua parlata, col ricorso ad incisivi ossimori, allitterazioni, onomatopee; con una narrazione che, discostandosi dalla linearità temporale ricorre a continui flashback a giustificare lo stato confusionale in cui si trova il protagonista, sprofondato nel buco nero dell’Io, nel vuoto interiore evidenziato dalla insicurezza e dai bisogni. Il bisogno d’amore, in particolare, crea in Gino una dipendenza affettiva dalla persona sbagliata: Giuliana, la dispensatrice di dolore, la vigliacca ipocrita opportunista capace di mille travestimenti, la passione dei vent’anni dall’incedere sicuro con la sua “prorompente bellezza caricata sui tacchi”, la predatrice entrata nella sua vita e nella sua anima per derubarlo della propria libertà interiore, della dignità, dell’autostima; per distruggergli la famiglia, il lavoro e tutto quanto faticosamente costruito fino a quel tragico 18 ottobre.
Devastata dall’incapacità di elaborare i lutti provocati dalle esperienze negative vissute col padre e con il suo primo amore, Giuliana “ingrassa la sua rivincita” usando gli uomini per vendicarsi, andando all’incasso dei crediti che la vita le porta calpestando chiunque si trovi sulla sua strada, inseguendo un benessere borghese travestita da “sinistroide sinistrata”, cantando Bandiera Rossa e Contessa con la sua voce roca da corvo, spacciando stupefacenti.
Una di queste sostanze ucciderà Riccardo , che da quel momento va ad abitare la mente di Gino diventandone l’alter ego, la coscienza, la sua parte razionale, l’istinto di conservazione, colui che gli impedirà di traslocare “dalla preoccupazione della vita alla soluzione della morte”.
E’ un ipersensibile Gino; ama Paperino, la rima dolce di Prévert,i piaceri semplici della vita; reclama coccole dalle donne della sua vita, la moglie e la figlia, che gli riservano il gelo dell’indifferenza. Arrabbiate con la vita, prive di qualsiasi entusiasmo Luisa e Martina sembrano geneticamente predisposte alla tristezza, alla malinconia e alla depressione. Gino al mattino prepara loro la colazione mettendo anche i fiori a tavola, sia pure di plastica, e le sveglia con un bacio, ma “non è facile amare senza avere poi indietro il conforto di un ritorno”.
La loro vita “quadrata, con gli animi a spigolo” scorre con la noia di un treno accelerato sui binari della normalità, con gesti che si reiterano quotidianamente senza suscitare la benché minima emozione, con la comunicazione affidata a sguardi imbronciati e invettive urlate. Una situazione stagnante in cui Giuliana trova un fertile humus per radicare e poter neutralizzare la volontà di Gino, che si ritrova proiettato in una dimensione costituita da molte ipotesi ( ipotesi di una fuga…di un amore…di un tempo…di un luogo…di un incastro…) e una sola certezza : la voglia di regalarsi il grande piacere di restare. Malato di possessione amorosa, terrorizzato dalla paura del distacco Gino troverà la forza di compiere un gesto che legherà per sempre a lui la sua Giuliana.
Scritto in tre mesi, in contemporanea con altri due libri che usciranno nel 2011, Roveredo non ha concesso distrazioni alla velocità, rimanendo nelle cifre stilistiche della sua scrittura asciutta e immediata ma anche avvolgente e appassionante, ricca di spunti autobiografici nei contenuti.
Dalle pagine del romanzo prende corpo la tormentata vicenda esistenziale dei suoi primi 40 anni; un percorso consumato nelle costrizioni del letto di contenzione e dell’Hotel Millesbarre ma illuminato dalla scoperta di una dimensione totale della libertà che può derivare solo dalla cultura.
I testi divorati nei lunghi periodi di isolamento hanno medicato le offese subite nel corpo e nello spirito, contribuendo a restituire alla società un uomo consapevole, che ha imparato a rispettare sé stesso e gli “ultimi”, quella parte di umanità che non tace le difficoltà del vivere quotidiano e i rischi di rimanere vittime di autoinganni senza possibilità di riscatto. Lui che a riscattarsi ci è riuscito ora si occupa di chi è ancora dentro il vortice dell’autodistruzione, e li aiuta a venir fuori seguendo gli insegnamenti di Basaglia. E’ uno scontro titanico tra Eros e Thanatos, una scommessa tra la vita e la morte perché se è vero, come fa dire a Gino, che ci vuole coraggio per morire è maggiormente vero che ci vuole eroismo per vivere.
Daniela Gerundo