Una tragedia. Una tragedia affrancata dalle aristoteliche
unità di tempo, luogo ed azione; svincolata da un rigido schema che ne possa
definire forme e scansione temporale attraverso la sequenzialità di prologo, azione
ed esodo, o di un epilogo.
Una tragedia che si svela al lettore materializzandosi su una
tela tessuta srotolando e riavvolgendo la matassa narrativa attraverso un
racconto frammentato dal continuo ricorso a flash back e digressioni : sulla
morte, sul tempo, sulla fortuna, sulla donna, sull’amore, sul suicidio.
Una tela sporca di tutto: sangue, escrementi, liquidi
organici, alcol, vomito copiosamente disseminati in corso di smargiassate
notturne dai tre Mr. Hyde Leone Polonia,
Giuseppe Maconi, Goffredo Monti, tre … insegnanti precari … in cerca di… punteggio.
Mako è morto, scannato come un tràgos sacrificato al Dio
Dioniso per espiare i peccati del gruppo. Ma dalla tragedia che qui si
rappresenta non scaturirà la catarsi, la purificazione dei mali, la presa di
coscienza dei propri limiti. L’arido e ingeneroso humus degli angusti spazi di
provincia alimenta i germogli della perversione, della violenza,
dell’aggressività in personaggi già corredati del personale bagaglio di
frustrazioni, lutti non elaborati, propensione a delinquere e a prevaricare. “
Tutti incidentati in questa storia” “
Tutti sconfitti in questa tragicommedia”
Personaggi come maschere…uno…nessuno…centomila…che si muovono
sulla scena come entità distinte, lacerate dalla inconciliabilità tra l’essere
e l’inganno dell’apparire; svelando la propria tormentata dimensione
psicologica; palesando la parte animale, selvaggia, istintiva presente anche
nell’uomo più civilizzato come parte originaria, insopprimibile, pronta ad
esplodere quando l’alcol o la coesione del branco allentano i freni inibitori.
Personaggi catalogati dall’autore secondo una personale
tassonomia che classifica le femmine in base al grado di “ disponibilità
sessuale” ed i maschi rilevandone il livello di dissolutezza. Primus inter
pares il padre di Leone, “il pazzo”, “il vecchio”, “il porco” , “il gremlin”, pedofilo, alcolizzato, violento , manesco ma
comunque amato. Un anelito di amore paterno già manifestato da Camillo Marla,
da Mino Palata, figli unici del modello di famiglia che ricorre nelle
narrazioni di Argentina : padre, madre e figlio sempre con le stesse
connotazioni. Negativa in modo esasperato ed esagerato la figura paterna;
amorevole, conciliatrice, comprensiva ed indulgente la madre, capace di
“guardare negli occhi come solo una madre sa fare”; tormentato e afflitto il
figlio. Leone ama la musica argentina Meola , Piazzolla “‘sti argentini, fa’
che conoscevano l’amarezza che mi portavo dentro”; ma è dilaniato
da un odio “che eclissa i sorrisi”, perché “avevo mille motivi per odiare … avevo
qualcosa che mi faceva andare in bollore nevrastenico … se avessi potuto avrei
scotennato tutti”. Idealista arrabbiato Leone, perché “ io credevo ancora che
un uomo dovesse guardarsi intorno, cercarsi dentro, essere solidale con
l’inferno che si trascina dietro”. “Tu sembri un duro ma in realtà devi essere
un esistenziale…” sentenzia il rude Antonio, custode della “Nuova Caledonia” la scuola privata proscenio della mise en
scène dove si rappresenta la tragica pièce
di una morte annunciata.
Maschere grottesche, pagliacci e acrobati si agitano nel
Grand Guignol della vita di provincia, personaggi che vengono sparati nel racconto con tutta
la loro carica devastatrice ma che
conosceremo attraverso dettagli anagrafici identificativi solo nelle pagine successive,
non prima di averne appreso le schizofreniche condotte. Soggetti irrisolti alterati
nel pensiero e nelle azioni, “pronti a violare la sacralità del silenzio con
parole vane” e gesti inconsulti: il gregge pelvico, i cremati dell’ultima fila,
i cuccioli di varano, l’albatro Nadali,
Lia, Rita, Concetta, Dio, Gianna, la recchia di Torino, i briganti di Leporano
e Pulsano.
Vittime e carnefici spaziano su e giù per il racconto, come i
vagabondi che aspettano Godot, animati
dalla stessa inquietudine e insofferenza che pervade l’io narrante e rimanda
allo scrittore stesso.
Il dinamismo della scelta stilistica si rivela funzionale al
pathos del lettore, alla necessaria tensione emotiva che lo spinge alla
conoscenza di una storia il cui finale è svelato già in prima pagina; una
storia scritta da soggetti “cinici ad oltranza” tutti “sorrisi e lacrime
salate” sui quali aleggia la morte, sempre pronta a rubare la scena ai
protagonisti facendo sibilare la falce
sui loro affetti: le madri di Leone e “il dentuso” che per questo diventano
“fratelli di morte”, la nonna del “bamba”, e poi Raggi e Mako.
Ma la perdita degli affetti non è imputabile solo alla morte,
c’è un pericolo più grave che incombe sulla
fragilità umana: l’innamoramento “ non
doversi innamorare mai perché amare voleva dire vivere nel terrore di perdere
un affetto”. Polonia, “forestiere della vita” se ne tiene a distanza di sicurezza anche perché a
25 anni “dovevo ancora conoscere la persona con cui scompariva il mio disagio
senza bisogno della fortificazione dell’alcol”.
Amore. “Quel petardo fatto esplodere in una cristalleria nel giorno
dell’inaugurazione”, l’alchimia di uno stato tra sogno e realtà che motiva ogni
follia, che detta comportamenti imprevedibili; quell’impulso dei sensi che
governa il nostro agire, ma che non può arrivare a giustificare una testa mozza
e una schiena spezzata all’alba di un giorno di maggio.
Eppure “s’è consumato
un disastro nato dal desiderio d’amore” o forse è stato valicato l’
impercettibile confine tra realtà e finzione perché abbiamo bisogno di credere che
ci sia dell’altro, di osservare le cose da un punto di vista imprevisto, di
proiettarci in una dimensione borderline tra sogno e realtà affrancandoci da
una quotidianità resa asfittica da ogni
sorta di condizionamenti.
Polonia, Mako e “dentuso”, gli equilibristi del Gran Guignol
hanno camminato sulla fune del desiderio di raggiungere l’inaccessibile e adesso
che “i creditori sono stati onorati” recepiscono qualcosa che sapevano da
sempre e non volevano sapere. Ma forse un giorno, nel valutare questa storia di
vittime e carnefici, di amore e di passione
qualcuno dirà che “si trattò solo d’amore”.
Daniela Gerundo
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