lunedì 28 gennaio 2013

PER SEMPRE CARNIVORI di Cosimo Argentina


Una tragedia. Una tragedia affrancata dalle aristoteliche unità di tempo, luogo ed azione; svincolata da un rigido schema che ne possa definire forme e scansione temporale attraverso la sequenzialità di prologo, azione ed esodo, o di un epilogo.

Una tragedia che si svela al lettore materializzandosi su una tela tessuta srotolando e riavvolgendo la matassa narrativa attraverso un racconto frammentato dal continuo ricorso a flash back e digressioni : sulla morte, sul tempo, sulla fortuna, sulla donna, sull’amore, sul suicidio.

Una tela sporca di tutto: sangue, escrementi, liquidi organici, alcol, vomito copiosamente disseminati in corso di smargiassate notturne dai tre Mr. Hyde  Leone Polonia, Giuseppe Maconi, Goffredo Monti, tre … insegnanti precari … in cerca  di… punteggio.

Mako è morto, scannato come un tràgos sacrificato al Dio Dioniso per espiare i peccati del gruppo. Ma dalla tragedia che qui si rappresenta non scaturirà la catarsi, la purificazione dei mali, la presa di coscienza dei propri limiti. L’arido e ingeneroso humus degli angusti spazi di provincia alimenta i germogli della perversione, della violenza, dell’aggressività in personaggi già corredati del personale bagaglio di frustrazioni, lutti non elaborati, propensione a delinquere e a prevaricare. “ Tutti incidentati in questa storia”  “ Tutti sconfitti in questa tragicommedia”

Personaggi come maschere…uno…nessuno…centomila…che si muovono sulla scena come entità distinte, lacerate dalla inconciliabilità tra l’essere e l’inganno dell’apparire; svelando la propria tormentata dimensione psicologica; palesando la parte animale, selvaggia, istintiva presente anche nell’uomo più civilizzato come parte originaria, insopprimibile, pronta ad esplodere quando l’alcol o la coesione del branco allentano i freni inibitori.

Personaggi catalogati dall’autore secondo una personale tassonomia che classifica le femmine in base al grado di “ disponibilità sessuale” ed i maschi rilevandone il livello di dissolutezza. Primus inter pares il padre di Leone, “il pazzo”, “il vecchio”, “il porco” , “il gremlin”,  pedofilo, alcolizzato, violento , manesco ma comunque amato. Un anelito di amore paterno già manifestato da Camillo Marla, da Mino Palata, figli unici del modello di famiglia che ricorre nelle narrazioni di Argentina : padre, madre e figlio sempre con le stesse connotazioni. Negativa in modo esasperato ed esagerato la figura paterna; amorevole, conciliatrice, comprensiva ed indulgente la madre, capace di “guardare negli occhi come solo una madre sa fare”; tormentato e afflitto il figlio. Leone ama la musica argentina Meola , Piazzolla “‘sti argentini, fa’ che conoscevano l’amarezza che mi portavo dentro”;  ma è  dilaniato da un odio  “che eclissa i sorrisi”,  perché “avevo mille motivi per odiare … avevo qualcosa che mi faceva andare in bollore nevrastenico … se avessi potuto avrei scotennato tutti”. Idealista arrabbiato Leone, perché “ io credevo ancora che un uomo dovesse guardarsi intorno, cercarsi dentro, essere solidale con l’inferno che si trascina dietro”. “Tu sembri un duro ma in realtà devi essere un esistenziale…” sentenzia il rude Antonio, custode della “Nuova Caledonia”  la scuola privata proscenio della mise en scène dove si rappresenta la tragica pièce  di una morte annunciata.

Maschere grottesche, pagliacci e acrobati si agitano nel Grand Guignol della vita di provincia, personaggi che  vengono sparati nel racconto con tutta la  loro carica devastatrice ma che conosceremo attraverso dettagli anagrafici identificativi solo nelle pagine successive, non prima di averne appreso le schizofreniche condotte. Soggetti irrisolti alterati nel pensiero e nelle azioni, “pronti a violare la sacralità del silenzio con parole vane” e gesti inconsulti: il gregge pelvico, i cremati dell’ultima fila, i cuccioli di varano,  l’albatro Nadali, Lia, Rita, Concetta, Dio, Gianna, la recchia di Torino, i briganti di Leporano e Pulsano.

Vittime e carnefici spaziano su e giù per il racconto, come i vagabondi  che aspettano Godot, animati dalla stessa inquietudine e insofferenza che pervade l’io narrante e rimanda allo scrittore stesso.

Il dinamismo della scelta stilistica si rivela funzionale al pathos del lettore, alla necessaria tensione emotiva che lo spinge alla conoscenza di una storia il cui finale è svelato già in prima pagina; una storia scritta da soggetti “cinici ad oltranza” tutti “sorrisi e lacrime salate” sui quali aleggia la morte, sempre pronta a rubare la scena ai protagonisti  facendo sibilare la falce sui loro affetti: le madri di Leone e “il dentuso” che per questo diventano “fratelli di morte”, la nonna del “bamba”, e poi Raggi e Mako.

Ma la perdita degli affetti non è imputabile solo alla morte, c’è un pericolo più grave  che incombe sulla fragilità umana: l’innamoramento  “ non doversi innamorare mai perché amare voleva dire vivere nel terrore di perdere un affetto”. Polonia, “forestiere della vita” se ne  tiene a distanza di sicurezza anche perché a 25 anni “dovevo ancora conoscere la persona con cui scompariva il mio disagio senza bisogno della fortificazione dell’alcol”.  Amore. “Quel petardo fatto esplodere in una cristalleria nel giorno dell’inaugurazione”, l’alchimia di uno stato tra sogno e realtà che motiva ogni follia, che detta comportamenti imprevedibili; quell’impulso dei sensi che governa il nostro agire, ma che non può arrivare a giustificare una testa mozza e una schiena spezzata all’alba di un giorno di maggio.

Eppure  “s’è consumato un disastro nato dal desiderio d’amore” o forse è stato valicato l’ impercettibile confine tra realtà e finzione perché abbiamo bisogno di credere che ci sia dell’altro, di osservare le cose da un punto di vista imprevisto, di proiettarci in una dimensione borderline tra sogno e realtà affrancandoci da una  quotidianità resa asfittica da ogni sorta di condizionamenti.

Polonia, Mako e “dentuso”, gli equilibristi del Gran Guignol hanno camminato sulla fune del desiderio di raggiungere l’inaccessibile e adesso che “i creditori sono stati onorati” recepiscono qualcosa che sapevano da sempre e non volevano sapere. Ma forse un giorno, nel valutare questa storia di vittime e carnefici, di amore e di passione  qualcuno dirà che “si trattò solo d’amore”.

Daniela Gerundo

 

 

 

 

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