lunedì 3 gennaio 2011

Vicolo dell'acciaio di Cosimo Argentina



L’impressione che si riceve dalla lettura dei suoi libri è che Cosimo Argentina si serva della scrittura come strumento per “elaborare un lutto”; come mezzo per sublimare il dolore e racchiuderlo nelle pagine; come tramite per trasformare in energia creativa la rabbia che sente implodere in sé; come sistema per commutare i vibranti sentimenti che lo animano in parole scritte.
Parole che necessitano di un’attenta lettura per poter recepire i messaggi in esse sottese. Occorre, infatti, saper leggere tra le righe più che le righe di quelle pagine per ritrovarvi le spinte emozionali che a quei racconti danno vita senza mai essere apertamente palesate, al massimo alluse: l’amore viscerale per la propria città; i legami indissolubili con quel “cumulo di pietre e di cristiani”; lo stupore davanti agli incredibili colori dei tramonti occidentali; l’orgoglio dell’appartenenza ostentato attraverso il ricorso ad un lessico famigliare strutturato su un vernacolo blindato e codici comunicativi fatti di versi della bocca supportati da cenni della testa.
La nostalgia originata dall’assenza di tutto questo e molto altro, il dolore generato dalla forzata lontananza dalla sua città, pari per intensità al patimento di un innamorato respinto, alimentano la scrittura torrenziale di Argentina definendone le cifre stilistiche ma anche i condizionamenti più evidenti.
E’ una narrazione avviluppata a luoghi situazioni e personaggi che hanno segnato la sua crescita; radicata nella cultura della terra d’origine ,alle usanze, alle abitudini, ad un modo confidenziale di relazionarsi tipico delle piccole comunità, dove tutti hanno un soprannome identificativo, dove si tende a consorziarsi in una comune rete di protezione e di sostegno.
E’ una narrazione espressa attraverso un gergo colloquiale e localistico che non facilita Argentina nel trovare editori disposti a riconoscergli i meriti dell’autenticità del sentire,della libertà d’espressione, del rifiuto delle snaturanti rivisitazioni dei consulenti letterari,del sentirsi svincolato dai tempi “dell’umano sistema fognario”.
E’ una narrazione fremente di passione che, con la portata di un fiume in piena, rompe gli argini imposti da precise indicazioni editoriali e travolge il lettore anche con la sgradevolezza di alcuni dettagli ma con la leggerezza dell’ironia quale sublimato dell’ira; con uno stile vivace in cui il sorriso amaro ha il sopravvento sullo sdegno per le ingiustizie sociali e sulle avversità della sorte in cui si dibatte una popolazione che ci rimanda al “ciclo dei vinti”.
In Vicolo dell’Acciaio Mino Palata racconta l’evolversi di una generazione del quartiere nel quale Cosimo Argentina è realmente cresciuto. La scenografia è resa dai profumi, suoni, rumori di quelle strade; dalle voci della tribù tarantina, dai rituali tipici del familismo meridionale. E’ il quartiere della mitica e mitizzata Via Calabria dove il 90% delle famiglie ha il capo che “se la spassa nel siderurgico”, beve caffè Ninfole, tracanna birra Raffo.
Quella dei capifamiglia è una carovana di antieroi che avanza su colline di carbon fossile e polveri ferruginose con genetica rassegnazione; con la consapevolezza che nel caravanserraglio dell’acciaio si baratta la vita per la sopravvivenza; che a nessuna caduta seguirà un pronto riscatto; che una naturale selezione della specie permetterà solo ai più forti di concludere il ciclo lavorativo nei gironi infernali dell’industria siderurgica, esentandoli da malattie invalidanti, rare forme tumorali, mutilazioni nel corpo e nell’anima. Una ingenerosa predestinazione sembra condannare i maschi del vicolo al ruolo di vittime sacrificali secondo un copione che si ripete per generazioni con scontata prevedibilità e passiva accettazione.
Inutili le manifestazioni di protesta contro gli sbuffi venefici del mostro d’acciaio; c’è il rischio di rimanere vittime dei raggiri delle associazioni degli “ambientalisti del giovedì”, personaggi incompetenti desiderosi solo di strumentalizzare il dolore della gente per acquisire un potere contrattuale.
Alle famiglie colpite resta il conforto del “consolo”, un rituale di solidarietà dell’indotto umano che comunque si sforza di migliorare l’avvenire dei propri figli attraverso gli studi universitari, guardando alla laurea come documento valido per espatriare dal vicolo e sdoganarsi dal destino di “gechi” attaccati al muro del bar di Mest’Arturo.
Gli studi di Mino però sembrano arenarsi al capitolo “Prescrizione e Decadenza” di un esame duro da superare quanto le prove che gli riserva il destino: l’impatto con l’amore, il peso dell’assenza, l’addio di Isa; la morte dei primalinea;il sogno proibito della dea condominiale, un nastro di Mobius da “percorrere” all’infinito; l’incomunicabilità col “generale dagli occhi lisergici” suo padre, ingombrante e assoluto,ma per lui un mito vivente; la compassione per la madre, una santa donna che “si riprende sempre”, con la bussola sempre in mano a segnalare il nord magnetico in una casa dove domina l’anarchia.
Il racconto è alleggerito da riferimenti a reali fatti di attualità e a citazioni che rimandano alle passioni del nostro scrittore: la musica di James Brown; il calcio dell’Audace Usac; la poesia del Pascoli nel Gelsomino Notturno; Manzoni con le risposte della sciagurata Gertrude-Vincenzina; André Brink, in Un’arida stagione bianca;le donne tarantine, le più belle del sistema solare; i fumetti di Tom Mix.
Ma, leggendo tra le righe ,scopriamo ciò che Cosimo ha voluto comunicare attraverso Mino: la rassegnazione uccide più della diossina. E Cosimo parla della sua rabbia quando Mino fa l’amore con Isa “…non c’è passione , c’è solo un maschio furioso, incalcolabile…con uno straccio di anima nera che lotta contro qualcosa che si arrotola nel buio del suo cervello…un animale ferito che cerca di bucare il manto nel quale è costretto a vivere….le ferite vengono a galla e combatto contro i demoni…Il piacere porta alla luce il terrore a cui è vincolato”. E’ la rabbia del lutto non elaborato; di chi non si arrende davanti allo spettacolo della sua città violata, della decadenza che distrugge quotidianamente strutture e speranze; di chi si aspetta delle reazioni forti da parte di chi invece ha scelto di lasciarsi vivere o morire; di quello a cui la laurea ha meritato l’esilio,ma che anche da lontano urla la sua rabbia attraverso i suoi libri o la rubrica sul nostro quotidiano locale, manifestando un amore che se fosse nell’animo di tutti i tarantini basterebbe a contrastare le mire dei colonizzatori e la rassegnazione di una classe politica che cambia colore ma non l’arrendevolezza di fronte al ricatto occupazionale.
E’ Cosimo quando Mino fa l’amore , e noi l’amiamo perché è così.
Daniela Gerundo

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