sabato 13 novembre 2010

Il peso della farfalla di Erri De Luca


Un Cantico delle Creature in prosa; un inno alla vita in tutte le sue espressioni; un omaggio alla sorprendente bellezza della natura ed alla intelligente laboriosità degli animali: l’aquila, il ragno, l’orso, il camoscio, lo stambecco, protagonisti con pari dignità di un racconto breve ma intenso permeato da una visione rispettosa e positiva della natura.
E’ l’analisi comparata di due esistenze e di due solitudini diverse quella che ci racconta Erri De Luca nel suo ultimo romanzo: un cacciatore ed un camoscio che si cercano, si spiano, si rincorrono, si temono; che assieme percepiscono il sopraggiungere del momento che metterà fine alla loro vita, solitaria per scelta, consumatasi nel silenzio dei boschi.
“ Quando un uomo si ferma a guardare le nuvole vede scorrere il tempo oltre di lui”. Il terzo capoverso a pag. 41 potrebbe essere il giusto incipit per introdurci nella storia di due esseri stanchi che, sentendo approssimarsi l’ineluttabile momento della chiusura del ciclo vitale, scelgono di mantenere intatta fino all’ultimo la loro fierezza e la loro dignità.
Nella narrazione si evidenzia da subito il rispetto e l’ammirazione che lo scrittore nutre per il camoscio, reso orfano ancora cucciolo dal cacciatore e divenuto “ il re dei camosci” forte di una taglia in più rispetto agli altri; costretto da solo a sperimentare le dure leggi della sopravvivenza; cresciuto senza regole ma capace di imporle al branco; capace di proteggere i cuccioli dagli attacchi delle aquile; capace di fiutare la presenza dell’uomo a grande distanza; determinato a non cedere la supremazia ad un maschio minore solo perché più giovane.
“Re dei camosci” era chiamato a valle anche il cacciatore, esperto alpinista capace di scalare pareti impossibili e tuttavia consapevole di essere un “re minore” come quello che “soffiava nella sua armonica”. Aveva ucciso 306 camosci con le sue pallottole da 11 grammi ma era stato il suo percorso di vita a fare di lui un bracconiere. Era stato giovane durante gli anni di piombo quando l’estremizzazione della dialettica politica si tradusse in lotta armata, in accanita ostinazione a voler “rovesciare il piatto”. Ma “un uomo è quello che ha commesso”; se dimentica è come un bicchiere alla rovescia, un vuoto chiuso ed “il peggio è sempre possibile”. Da qui la scelta di vivere in una stanza a 1900 metri di altezza, immerso nella natura, pronto a recepire le lezioni di vita e di lealtà che gli animali sanno riservare al genere umano.
Il sopraggiungere dell’età adulta per entrambi porta con sé delle crepe nei sensi , negli organi, negli arti. Per il cacciatore è una crepa anche l’appuntamento accordato ad una donna, una giornalista disposta a salire fino a 1900 metri pur di intervistare “l’ultimo bracconiere”. E’ una crepa l’incapacità di percepire il presente, di governare l’istinto che spinge a uccidere senza necessità, di comprendere quando le stagioni della caccia e della vita volgono al termine.
“Ci sono carezze che aggiunte sopra un carico lo fanno vacillare” così come il peso di una farfalla che si posa sul cuore è “ la piuma aggiunta al carico degli anni, quella che lo sfascia”. E lo sfascio, la fine per entrambi, si preannuncia attraverso l’ ultimo episodio di caccia con il quale si chiude il racconto: l’ animale compie un atto di clemenza nei confronti del suo nemico – compagno di solitudine; il cacciatore, come già avvenuto in passato, compie un atto grave, pur nella consapevolezza di non potervi porre rimedio “ non poteva risarcire il torto , ma poteva rinunciare. I debiti si pagano alla fine una volta per tutte”.
Un finale che non sorprende chi leggendo ha recepito un vago sentore di morale didascalica sovrastare le righe, senza tuttavia cadere nella facile retorica o gratuita precettistica. Nelle intenzioni dell’autore vediamo solo la volontà di offrire spunti di riflessione; la ricerca di stimoli per migliorarci; l’ occasione per guardarci dentro e confrontarci con le nostre sensazioni disancorate da melensi sentimentalismi.
Si ritrova molto della biografia dell’autore nella storia del cacciatore: l’età, l’amore per la montagna, la passione politica, la morigeratezza nello stile di vita, l’importanza dei valori, dei vincoli parentali, dei codici non scritti che ispirano il comportamento degli animali e che l’uomo tende a dimenticare. Ritroviamo tra le righe l’innata spiritualità del non credente che comunque sente di voler ringraziare il “capomastro” rivolgendogli un pensiero al calar della sera; la passione per le sacre scritture nel riferimento al “vestito di vento di Elohìm”; le digressioni colte inserite con modestia e umiltà, con quella umiltà che traspare dai suoi occhi luminosi e malinconici, che tanto hanno visto e molto hanno ancora da raccontare.
Daniela Gerundo

La Solitudine dei Numeri Primi - Film


Sicuramente meno apprezzato del libro da cui è tratto, il film si rivela asfittico già dalle prime scene a causa della cappa plumbea che sovrasta i personaggi, tutti immersi in una realtà intrisa di frustrazioni, dolori laceranti, ossessioni, ferite mai cicatrizzate.
La trasposizione filmica si incentra principalmente sui percorsi sofferti dei due protagonisti, relegando a ruoli di secondo piano gli altri personaggi che pure hanno contribuito a segnare in modo determinante le esistenze di Alice e Matteo.
L’assenza di coralità sortisce un effetto “soporifero” negli spettatori, specialmente nel pubblico maschile, geneticamente poco predisposto a coinvolgimenti emotivi nelle storie di stampo intimistico-introspettivo .
Ma neanche alle donne il film riesce a rapire l’anima, perché non narra una storia d’amore, di passione, di sentimenti forti che animano situazioni nelle quali rispecchiarsi; racconta di drammi e sofferenze, dolore e autolesionismo, smarrimento e disperazione in un susseguirsi di negatività che non lascia spazio alla speranza nemmeno nel finale.
Cupo nelle espressioni e negli sguardi, nei silenzi e nei dialoghi frammentati, nei colori e nelle ombre necessarie per mettere in luce le lacerazioni dell’anima oltre che dei corpi, il film si affranca da una connotazione tediosa e monotona solo grazie ad una scelta narrativa che, discostandosi dalla linearità temporale ricorre a continui flashback e flashforward funzionali a tener viva l’attenzione dello spettatore, e comunque non è un film destinato a rimanere nella memoria collettiva.
Daniela Gerundo

Il tempo invecchia in fretta di Antonio Tabucchi


Ben ponderata la scelta di una fotografia di Philippe Ramette in copertina : un uomo sui trampoli in cima ad una montagna, alla ricerca di “un punto di vista imprevisto” sul mondo, nell’intenzione del fotografo.
Un uomo con lo sguardo teso ad oltrepassare le linee di demarcazione dello spazio, i profili delle montagne cobalto, la linea blu di un orizzonte rischiarato da candide nubi sospese nel cielo azzurro, pronto a proiettarsi nella dimensione del ricordo, nell’interpretazione del lettore attento.
Si recepisce una sinestesia rassicurante che predispone alla concentrazione nella lettura di un romanzo che esige un’attenzione continuativa.
“Ogni immagine è una piccola avventura” per il Magritte della foto, sempre impegnato a sfidare la visione razionale del mondo.
Ognuno dei nove racconti che compongono il libro di Tabucchi è una storia finita che contiene in sé tutti gli elementi per costruirci su un intero romanzo.
Sono storie raccontate con un pathos così intenso e ammaliante da agire sulla sfera delle emozioni fino a distogliere l’attenzione dalla trama. Storie di personaggi emblematici tanto diversi tra loro ma accomunati dalla convergenza coscienziale dell’inarrestabilità e inafferrabilità del tempo e della profondità dei solchi che il suo scorrere lascia sulla vita delle persone.
Racconti che si snodano attraverso lo scandire del tempo, non solo del tempo personale, famigliare, della storia passata e recente ma anche del tempo dello spirito, appesantito da un carico di rimpianti e malinconie che inducono i protagonisti ad andare avanti col capo rivolto indietro, guardando al passato con l’occhio deformante della nostalgia mitizzatrice.
Storie di esistenze legate dal fil rouge della “saudade”, quella “inesplicabile sensazione di rimpianto, di malinconia e, al tempo stesso, desiderio di raggiungere l’inaccessibile”.
Storie realmente esistite, ascoltate, raccontate e disposte nel libro senza rispettare la cronologia di scrittura, precisa l’autore nella postfazione. Ma l’impatto con il primo racconto è forte: un lavoro perfetto nella forma e sorprendente nel contenuto che racchiude in se tutti gli elementi che ritroveremo nelle storie successive.
Intenso, suggestivo, quasi metafisico “Il cerchio”, racconto d’apertura che da solo giustifica l’intero romanzo. E’ il cerchio tracciato sul terreno da una mandria di cavalli che gira vorticosamente attorno alla protagonista del racconto al pari dei ricordi che affollano la sua mente. La donna, confusa dagli inganni della memoria tra ricordi e “falsi ricordi” che si susseguono senza una linearità temporale, sembra prigioniera più della dimensione claustrofobica della sua esistenza che della situazione contingente. Il cerchio evoca in lei il “sentimento di se stessa”; il cerchio, la forma più perfetta, simbolo di Dio e del cielo, figura che esprime la circolarità del tempo, di quel tempo che sembra volato via come aria, lasciando sepolte “nella sabbia della memoria” le risposte ai tanti interrogativi esistenziali che hanno scandito la sua vita.
Clof…clop…cloffete…cloppete…il tempo scandito da onomatopee differenti, ad indicare la variazione di intensità delle gocce che, cadendo, emettono un suono che segue una loro scala musicale. Gocce che scendono da una flebo che alimenta una persona amata e che implodono nel cervello del protagonista del secondo racconto facendo affiorare “ da un’eternità di tempo” personaggi e vicende confuse, avvolte da uno strato di nebbia che si dirada davanti al sorriso di una bimba malata terminale.
Registro stilistico più snello che favorisce una lettura più spedita in “Nuvole”. Una conversazione che tocca argomenti di notevole spessore culturale tra una bambina, resa adulta anzi tempo dai “dissidi esistenziali” dei genitori separati, e un militare in convalescenza dai danni provocati dall’esposizione all’uranio impoverito. Alla bimba, in cura dallo psicologo per le conseguenze di traumi che lei chiama “crisi dell’età evolutiva”, l’uomo insegna la nefelomanzia, l’arte di indovinare il futuro osservando le nuvole.
Un bilancio fallimentare della propria esistenza è quello che deve tracciare il protagonista del quarto racconto, un uomo benestante che vive una situazione di agiatezza e apparente sicurezza ma soffre di sbalzi di pressione imputabili, a detta del suo medico, a stati ansiosi immotivati. E’ un ex agente della ex Repubblica Democratica Tedesca che ha vissuto il crollo del muro di Berlino e delle ideologie dallo stesso simbolicamente sostenute. Ma il muro è crollato e dai dossier custoditi negli archivi della polizia è emersa una verità inquietante che pesa sul suo cuore come un macigno. La consapevolezza che la condivisione di un dolore con un amico può contribuire ad alleggerire il carico spinge l’uomo a recarsi al cimitero, dove riposa “nell’eternità orizzontale” la persona che per anni ha pedinato, condividendo ogni istante della sua vita e che per questo adesso sente a lui più vicino di qualsiasi altro amico: Bertold Brecht.
“Fra generali” molte “congetture” e una certezza: se la guerra non li avesse divisi, due uomini di grande spessore sarebbero potuti diventare grandi amici uniti dalle stesse grandi passioni.
“Yo me enamoré del aire”, il potere evocativo di una canzone, la sensazione di straniamento provocata da quelle note in un uomo che continua a sentirla dentro di sé come un’eco che lo proietta “verso una lontananza che non sapeva dove”.
Un viaggio nella storia contemporanea negli ultimi racconti, occasioni di feroce critica ai regimi totalitari, al reato di pensare in modo diverso dallo Stato, ai processi farsa le cui sentenze sono già scritte prima della seduta, alle leggi razziali, alle illusioni create dalla “pappina dell’eterna giovinezza della falsa scienziata”, ai lager, ai campi di rieducazione, ai manicomi giudiziari, alla pretesa di “lustrare la memoria per farla funzionare come vogliono loro”.
Un viaggio in aereo “Controtempo” che allontana un uomo dalla destinazione reale per proiettarlo in una dimensione borderline tra sogno e realtà, evocando un déjà vu liberatorio “come quando finalmente capiamo qualcosa che sapevamo da sempre e non volevamo sapere”, a chiusura del viaggio tra passato remoto e passato prossimo nel quale siamo stati condotti da Tabucchi attraverso la sua scrittura.
Una scrittura a volte fluida ed accattivante a volte complessa ed articolata, mai banale nella preferenza della parola, singolare nella scelta di abolire la virgolettatura dei dialoghi a vantaggio di una lettura più fluida ma di una comprensione meno immediata, perfetta nella forma quasi al limite del compiacimento manieristico, ricca di contenuti, citazioni e personaggi che offrono numerosi gli spunti di approfondimento anche a rischio di far prevalere l’uomo di cultura sullo scrittore.
Didascalico, nell’accezione più positiva del termine, il messaggio che recepiamo sin dalla copertina: servono trampoli altissimi per guardare oltre l’orizzonte visibile, per valicare i limitati confini di una quotidianità resa asfittica da condizionamenti di varia natura e aprirsi ad uno sguardo di più ampio respiro, pregno di comprensione, indulgenza, umanità, con la consapevolezza che “ non c’è futuro senza memoria”
Daniela Gerundo
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lunedì 22 settembre 2008


Un giorno perfetto
Regia di Ferzan Ozpetek


Il libro non l’ho letto e non posso leggerlo per il momento perché ne devo finire altri 5 o 6. Il fatto è che l’estate i neuroni vanno in vacanza lasciandomi a casa e il caldo del magico sud mi toglie il respiro, impedendo il normale processo di ossigenazione del sangue che comunque deve affluire al cervello.
Tutta la mia vita ne risulta condizionata, come l’aria sparata a palla in tutta la casa.
Però sono andata al cinema e ho visto il film. Mi è piaciuto, come la maggior parte dei film di Ozpetek, il regista turco che in questa occasione si è discostato dalle tematiche che caratterizzano le sue produzioni per affrontare una storia corale orchestrata sulle sonorità rimandate da figure che fanno parte della nostra quotidianità.
Al cinema gruppi di donne vedono un film recitato da altre donne e nel buio si sente bisbigliare "guarda la Ferrari...è proprio come quella schizzata di Giovanna..." "ma che dici...a me sembra Stefania..." "io c'ho una collega che è proprio come lei..." "e la Sandrelli...sembra una scema come mia suocera..."
I commenti sembrano mirati maggiormente a smorzare il clima di tensione e ritardare la conferma di un dramma, preannunciato sin dalle prime scene, che si concretizza nel successivo flash back attraverso una narrazione che non risparmia i dettagli di molte morti annunciate.
Non ci ho creduto da subito che l’amore fosse la causa di una tragedia di così vasta portata. Per lo meno non l’amore inteso cristianamente che, come ricordato nell’enciclica DIO E’AMORE di Benedetto XVI, non parla attraverso l’abbraccio soffocante di chi vuole asservire gli altri alle proprie esigenze, ma si manifesta nelle mani inchiodate, che rinunciano ad ogni presa dell’altro. Chi anela all’unione con l’amato vive il desiderio dell’altro mediante il dono di sé stessi, della propria vita.
Ma la mitologia greca ci insegna che Eros è figlio di Penìa ( la povertà) e di Pòros (l’espediente); la fame endemica che lo affligge lo induce alla violenza per potersi saziare, e a volte lo trasforma in Thanatos, in morte.
Il poliziotto Antonio, Valerio Mastrandrea, in servizio di scorta ad un onorevole è ossessionato dalla moglie Emma, Isabella Ferrari, una ex rocchettara sciroccata e disincantata.
Sono già sposati da una quindicina di anni ed è poco credibile che dopo tanto tempo Antonio sia talmente innamorato della moglie da imboccare il tunnel del non ritorno conducendo con se i figli per il rifiuto di Emma di ricomporre una situazione degenerata a causa della sua gelosia.
Non una passione amorosa, una devastante ossessione, ma una ossessiva possessione ispira l’agire di Antonio, il quale ha lasciato che la divisa gli comprimesse il corpo e l’anima, fino a renderla asfittica. E’ un uomo preposto all’ordine pubblico che cerca l’ordine anche quando torna a casa; che vuole trovare la luce accesa, anche se è una luce artificiale, che non riscalda; che ha bisogno delle certezze rappresentate dai tiepidi affetti di una famiglia di monadi, che non comunicano tra loro: Emma, donna irrisolta quanto la più famosa Bovary; una figlia adolescente alle prese con palpiti di cuore e battiti di ciglia cariche di rimmel; un bambino saggio, sornione, pacato che subisce le angherie dei compagni tacendone con i suoi familiari.
Lui, il poliziotto a rischio burnout, alternando fasi di aggressività e prostrazione, tenta di ricostruire il puzzle raffigurante la “finta normalità” necessaria ad un uomo che per mestiere di cose normali ne vede ben poche e ne vive ancora meno.
A generare il dramma è la consapevolezza di aver perduto tutto ciò che era funzionale ad un apparente benessere, alla possibilità di immergersi in una dimensione umana, sia pura tra le inevitabili conflittualità generate dalle rispettive frustrazioni. In casa il poliziotto diventa comandante e impartisce ordini su come vestirsi, truccarsi, pensare, vivere, e quando lei non ci sta più e va via con i figli lui si rifiuta di incontrare i bambini per più di un anno. Amore di padre? Rifiuto di chi, con la propria presenza testimonia il fallimento di un progetto matrimoniale, lo stravolgimento di una pianificazione dell’esistenza.
Incapace di amare se non se stesso, Antonio ci appare fragile e smarrito, l’apparentemente tranquillo signore della porta accanto pronto invece a colpire con imprevedibile ferocia tutto ciò che ostacola il raggiungimento della rassicurante stabilità di cui ha bisogno .
Dura e determinata si mostra invece Emma, che accetta qualsiasi lavoro pur di affrancarsi da un uomo che forse in fondo ama ancora. Lo si capisce dalle confidenze sulla sua intimità che affida all’insegnante della figlia, una Monica Guerritore che la ascolta con un interesse indecifrabile, quasi inquietante, forse perché originariamente nel libro della Mazzucco l’insegnante era un uomo.
Il ritmo incalzante degli eventi si placa spostando la cinepresa sulle vite degli altri protagonisti. La coralità è funzionale ad una storia troppo intensa che da sola avrebbe conferito al film una connotazione eccessivamente cupa.
L’atmosfera invece è smorzata dalla leggerezza della Sandrelli, la mamma che accoglie in casa figlia e nipoti; dallo stupore della Finocchiaro, dottoressa del 118 che incrocia casualmente i protagonisti in un crescendo di drammaticità; dai sentimenti del giovane figlio dell’onorevole per la giovanissima moglie del padre, sposata in seconde nozze dopo il suicidio della prima.
La ragazza paga con l’infelicità il “ complesso di Lot” che ha condizionato la scelta del compagno di vita; la ricerca, cioè, di visibilità e autorevolezza attraverso legami sentimentali ( o sessuali) con partner maschili di età più matura. La storia raccontata nella Genesi è metafora di una “eterna relazione” tra donne giovani e uomini adulti motivata dalla ricerca del potere e del denaro.
In questo festival del disagio la più coerente rimane Emma che grida la sua voglia di vivere in un giorno perfetto in cui perde il lavoro, subisce un’aggressione dal marito e viene brutalmente picchiata e violentata.
Il finale drammatico è il naturale epilogo di una storia che trova giustificazione nelle umane debolezze, nei limiti della ragione, nel disordine emozionale, nell’incapacità di accettare le sconfitte, nella fuga dalla realtà. Non occorreva fare riferimento ad un libro per realizzare un film che è la trasposizione scenografica della cronaca somministrataci quotidianamente attraverso i media. Inopportuno ogni giudizio di natura morale o etica sugli eventi, storie di vite che si intersecano ai crocevia delle sconfitte, delle delusioni, del dolore, del dramma. Accogliamo pienamente il giudizio che del film ha dato lo stesso Mastrandrea “ abbiamo raccontato la razza umana, la cosa più affascinante e terribile che esista”.
Daniela Gerundo

mercoledì 9 luglio 2008

PROST

Incrociamo calici briosi
augurando una sbornia di vita
a voi
perennemente ubriachi
di sentimenti,
irrimediabilmente innamorati
dell’amore,
inguaribilmente malati terminali
di passione,
permanentemente ricoverati al reparto
“ grandi ustionati”,
instancabilmente impegnati
a tamponare epistassi,
solitamente segnati da ferite
non cicatrizzate,
intricatamene invischiati
in questioni di cuore,
quotidianamente angosciati dalla conflittualità
tra ragione e sentimento,
soffertamene tormentati
dal dubbio della reciprocità,
affannosamente alla ricerca
di sensazioni strong,
piacevolmente coinvolti
in situazioni hard,
perfettamente consapevoli
dell’irreversibilità dell’ottenebramento,
masochisticamente inseriti
in una realtà
dove tutto viene filtrato e trasfigurato
dall’Amore

I menestrelli del disincanto

PARALIPOMENI DI UNA SANA E GRATIFICANTE AMICIZIA EROTICA

della serie: se ce lo diciamo prima, non ci saranno recriminazioni dopo!

Dai baby, questa storia tiriamola a 200 all’ora
sull’autostrada delle nostre emozioni,
fino allo sfinimento,annullandoci
nell’esaltazione di ogni incontro,
nell’incanto di ogni attimo intrigante,
nella magia delle nostre percezioni.
L’ebbrezza di ogni istante, irripetibile nella sua unicità,
l’intensità dei nostri umori confusi con le nostre fragranze,
la sensazione dei brividi sulla nostra epidermide costituiranno
l’energia necessaria per rituffarci
nella disarmante quotidianità.
Non spaventarti, non fuggire se ti dico “ti amo”: è
per la momentanea, suggestiva presenza delle stelle,
del sole,del mare…non è per sempre!
L’ amore eterno, con le sue complicazioni determinate
dalla gelosia retrospettiva,dall’analisi introspettiva,
dai reciproci condizionamenti, dai comuni progetti ,
dalla pianificazione degli eventi,dalla codificazione dei gesti,
dal reiterarsi degli interrogativi,dalla prevedibilità delle risposte
è un programma raccapricciante!
“Vivamus atque amemus” dolce, trasgressivo, coinvolgente, totale baby;
è importante che tu ci sia, ora.
Poi, se vuoi resteremo amici;
se non vuoi, neanche quello!
Non sapremo più niente l’uno dell’altro.
Il tempo non potrà deteriorare qualcosa di magico,
perché disegneremo la nostra storia come una retta,
non come una parabola e in qualunque momento finisca
ci consegneremo al mito nel nostro microcosmo.

Per presa visione e accetazione delle condizioni

FIRMA

SI CONSIGLIA DI FAR SOTTOSCRIVERE IL PRESENTE CONTRATTO ALL’INIZIO DI OGNI STORIA, AFFINCHE’ UN ELETTRZZANTE PROLOGO NON DEBBA CONOSCERE UN ELETTRICO EPILOGO